29 giugno, 2008

Grado da Metropoli a Pieve


C'è un punto di frattura tra la storia brillante delle origini di Grado e il lento ma inesorabile degrado, questo punto si può identificare con il passaggio definitivo del Patriarcato da Grado a Venezia.

Dopo la soppressione del titolo vescovile (1451), Grado diventa una semplice pieve del patriarcato di Venezia, alla cui guida il Papa Niccolò V aveva eletto Lorenzo (1381-1456), della famiglia Zustinian o Giustianiani, una delle più nobili e in vista della Repubblica.

I primi anni del suo patriarcato corrispondono ad un periodo difficile per la Serenissima, minacciata dai Turchi; inoltre, la nuova giurisdizione ecclesiastica, molto più vasta rispetto a quella castellanense, richiede al nuovo presule e ai suoi successori notevoli sforzi organizzativi e amministrativi tali imporre una gestione provvisoria soprattutto dei territori più decentrati e degli affari meno urgenti: per queste ragioni bisogna attendere quasi vent'anni e arrivare al 1470 perché a Grado venga nominato il primo pievano, Giovanni Aspasio.

Dal punto di vista socio-economico la popolazione era per lo più composta da pescatori e da trasportatori di sabbia, che commerciavano con l'entroterra friulano e con Trieste, ma soprattutto con Venezia. Le altre attività economiche erano legate alla produzione e alla distribuzione dei beni di prima necessità o ai servizi indispensabili: vi erano contadini che producevano e vendevano ortaggi e frutta, coltivati nelle vaste aree agricole ancora estese al di fuori delle mura cittadine, artigiani e commercianti. Il livello di istruzione di tutte queste persone era molto basso e la quasi totalità della popolazione continuava a rimanere analfabeta.
Le misere casse comunali riuscivano a malapena ad assicurare alla popolazione le sole esigenze primarie e quotidiane, mentre si doveva ricorrere, con molte insistenze talvolta secolari, all'aiuto della Repubblica per le opere e gli interventi di maggior impegno finanziario e straordinari, quali la ricostruzione delle mura, il risanamento degli edifici pubblici, civili e religiosi, il rifacimento delle strutture di protezione dell'abitato e di difesa militare del territorio.
Mentre i reggitori del Comune erano veneti, i sacerdoti della comunità erano quasi sempre indigeni, spesso appartenenti alle famiglie più in vista, che ne imponevano l'elezione.
La lettura e l'analisi dei documenti confermano la precarietà del tessuto sociale e le difficoltà della vita associata, e testimoniano frequenti contese e anche risse furibonde, che potevano degenerare talvolta in delitti, che l'impotenza dell'autorità locale spesso non riusciva a prevenire né a reprimere. In questo clima sociale e civile, un gravissimo e preoccupante problema della città era quello della sicurezza pubblica e dell'incolumità degli abitanti, per la presenza di persone poco raccomandabili e sediziose, che giravano armate per l'isola, minacciando e terrorizzando i cittadini di giorno e disturbando la quiete pubblica nelle buie notti. Oltre ai reati contro la persona, vi erano quelli contro il patrimonio: i furti nelle botteghe, negli orti, nei cortili e nei pascoli, dettati sovente dallo stato di estrema indigenza di alcuni, erano quotidiani nelle aree del territorio comunale situate fuori delle mura, specialmente verso meridione.
Il quadro generale della vita collettiva non è sempre, però, contrassegnato da tinte fosche ed equivoche: si tratta, nei casi estremi, di eccezioni, che sono comunque il frutto di una realtà variegata ed in lenta evoluzione, che porterà verso la fine del XVII e l'inizio del XVIII secolo ad un graduale miglioramento delle condizioni generali della vita civile e religiosa.

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