21 febbraio, 2017
Conversazione con Biagio Marin -"Grado, vile città di camerieri !"
Ogni uomo, anche il più grande, ha dei lati privati che per naturale ritrosia non vuole rendere pubblici.
Aspetti che li rendono più vicini a noi, più umani e di conseguenza più facilmente comprensibili ed in fondo accettabili.
Questa conversazione di Biagio Marin con il suo amico Luciano Sanson, mostra alcune sfaccettature del personaggio Marin che me lo rendono più comprensibile ed accettabile.
Conversazione con Biagio Marin a 84 anni (1975)
La Grado di oggi Biagio Marin non la riconosce più.
«Credo che sia diventata soltanto una fabbrica di turismo», commenta.
«"Grado, vile città di camerieri !" si potrebbe definirla così, con ironia, perché non c'è vita culturale.
L'unica aspirazione di tutti quanti è quella di essere o di diventare dei piccoli borghesi.
Ho ormai pochi amici», aggiunge. «Ed è triste vedere che qua nessuno bada ai miei versi. Forse, mentre credevo che scrivendo in gradese mi sarei avvicinato alla mia gente, non mi ero accorto che la mia poesia non era popolare.
Il Duomo, la Basilica di Santa Maria, il Battistero, costruiti tutti nel VI° secolo dal patriarca Elia, la casa dove è nato, proprio là, vicino a Santa Maria delle Grazie, sono gli unici luoghi che gli ricordano la sua Grado.
Quella che Biagio Marin continua a sognare. Il paese di tanti anni fa, quando suo padre navigava su un "trabaccolo" fra l'Istria e la Dalmazia trasportando vino.
«Mio nonno possedeva un'osteria e io là dentro feci la mia prima scuola, fra tutti quegli avventori che si chiamavano "compare" che mi sembravano tutti un po' miei parenti », ricorda Biagio Marin.
«Avevo poi una nonna formidabile.
Pensi, era una pescatrice di laguna. Si chiamava Antonia, nona Tonia, ed è stata una donna che mi ha insegnato molte cose perché era saggia anche se non aveva studiato. Mi ricordo che quando avevo quindici anni e cominciavo già a polemizzare con i preti mi disse: "Figliolo, non essere cattivo con loro.
Guarda, son poveri uomini che si sono assunti impegni più grandi di loro. In realtà portano una grave croce. Noi dobbiamo aver pietà di loro e non odiarli e non essere severi."»
È tra le pareti della sua casa tutto il mondo di Biagio Marin. Nel piccolo studio rettangolare, con la scrivania vicino alla finestra che dà sul mare, gli scaffali colmi di libri e dei grossi volumi rilegati che raccolgono il suo diario, che scrive dal 1940, ininterrottamente, tutte le mattine alle cinque.
«Non lo ha letto ancora nessuno», spiega.
«Tutte queste pagine potranno essere pubblicate soltanto dopo la mia morte.»
Su una parete c'è la foto di Falco, il figlio morto durante la seconda guerra mondiale.
A lui è dedicata la biblioteca pubblica che si trova proprio vicino alla casa. «Il sindaco avrebbe voluto che portasse il mio nome», racconta. «Ma io ho ottenuto che fosse intitolata a mio figlio anche se non è stato facile. Pensi che allora venne da me l'assessore all'Istruzione di Grado, un maestro elementare e mi disse: "A nome di alcuni amici cattolici le vengo a chiedere di porre il veto a che venga dato il nome di suo figlio alla biblioteca".
E lo sa perché mi chiedeva questo? Deve sapere che io non ho mai fatto battezzare i miei figli perché ho sempre voluto che fossero loro a deciderlo, una volta diventati grandi. E così Falco era morto senza aver ricevuto questo sacramento. Una cosa che non andava giù ai cattolici gradesi.
Naturalmente mi ribellai e allora, l'assessore all'Istruzione si arrabbiò e mi gridò:
"Ma chi crede di essere? Lei per me non è niente!".»
È un'altra delle amarezze che Biagio Marin non dimentica e che lo hanno fatto rinchiudere sempre di più nel la sua casa, a scrivere, leggere, curare la grande collezione di conchiglie marine che sono centinaia, sparse un po' dovunque e che raccoglie da anni.
Esce raramente e insieme con sua moglie, Giuseppa, percorre i novecento metri di un solitario lungomare proprio dietro la sua casa. Sono brevi viaggi per osservare da vicino quella spiaggia che i gradesi chiamano «Costa Azzurra» .
«A ottantaquattro anni. mi considero quasi sulla soglia del paradiso», confessa Biagio Marin.
«La vita va via, la vita scorre ed io ho l'amarezza di essere un poeta lasciato un po' in disparte perché scrivo in dialetto.
Ma non importa. L'amarezza resta e io continuo a scrivere. Lo sa quando nascono le mie poesie? La sera, fra la veglia e il sonno. Le scrivo in cinque minuti, attacco la prima parola e vado fino in fondo.
Visto da questo lato, più personale, più umano, al me scuminsia a diventà simpatico.
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