04 marzo, 2019

Cuochi o alchimisti?

In un paese come il nostro dove la fame ha fatto da protagonista per generazioni, i termini che identificano il cibo devono per forza essere poetici, ed è così a Grado dove la terminologia gastronomica messa di seguito sembra sia poesia.

Carussi e bussolai, bone grassie (ciambelle della cresima), pan co l'ua, pan de fighi, pan consao o co l'ogio, pinse e fugasse, frisse (ciccioli di maiale fritti) sigari de bon-bon, perussoli, mestroculi e stiopetini, legno dolse, carobe, sucoro de Gurissia (liquirizia), crustuli e fritole, panadela, mesta (la sbobba del casoner- olio, pepe, farina e fagioli qualche frissa e sardele salae), risi co l'ogio, bisi sichi col pesto, zuf (farina di granturco bollita con acqua e latte) perseghi, nespuli e sorbuli co la polenta, pesse salao soto fraco, sarduni e renghe, bacalao, datuli e fighi, peverasse, caparossuli, sgarsenei e cape de vale, scanavesse e giarissi, e buriti de duti i coluri.

Questi, in parte e alla rinfusa i termini della tradizione culinaria da non dimenticare. 


Dopo, con l' avvento del turismo moderno, è arrivata la Ristorazione cool dove il cuoco è un food magician, un alchimista del cibo, uno che ti prende un pomodoro e lo trasfigura nella sua più intima materia, ne condisce l' anima. 

E noi che siamo ancora a pasta e fagioli e boriti. 

QUANDO è stato, esattamente, che ci siamo rincoglioniti in fatto di cibo? 

La cucina è diventata  la nostra nevrosi, una religione dispotica i cui sacerdoti, star della Tv e delle copertine glamour, vendono a peso doro le loro mutazioni genetiche e le chiamano creazioni. 

Bah!

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