Ze stao caligo in sti giurni.
Una colata di umido opaco che si è riversata attorno alle cose.
Non le ricopre, non le accarezza: le offusca.
Ha il suo fascino il caligo, qua da noi.
Arriva come un padrone che torna a casa dopo le vacanze: ha le chiavi di tutte le porte come fosse roba sua.
Penetra dentro i vicoli, le strade, le porte, fin dentro alle giacche, alle pelle, alle ossa.
E’ dentro e fuori, non lo puoi evitare o schivarlo, come la malinconia.
Serve a farti meditare, al caligo, perché quando non vedi più le cose con il loro contorno abituale sei costretto a pensarci di più.
Cerchi di ricordare dove cominciano e dove finiscono, che forma hanno quando al caligo non c’è. Anche tu pensi e ti ridefinisci, cercandoti in quel lattiginoso bianco che riesci a fatica a respirare: senti che non sei più quello di prima, ma una cosa che si ingolferà e nasconderà nei cappotti, nelle sciarpe di lana, seppellirà i capelli nei berretti, farà pensieri che prima di uscire allo scoperto dovranno attraversare strati di stoffe.
Le parole che usciranno dalla bocca non saranno più parole e basta ma sbuffi di fumo, vapore, caligo anch’esse.
Perderanno i loro contorni nell’aria invernale.
Il sole è matematica, al caligo è filosofia.
Ciò che era così netto prima diventerà fiabesco, per infiltrarsi, come al caligo, in volute di fumo tra le lane dei maglioni, passare sotto le porte chiuse per paura del freddo e dell’umido.
Ze stao caligo in 'sti giurni