24 novembre, 2014

Luciano Sanson e Biagio Marin

C'era una volta una razza di giornalisti locali che pur lavorando "soto Comun" riuscivano lo stesso ad essere imparziali e a dare le notizie interessanti per quel che erano senza l' interpretazione "a cazzo" in uso oggi.
Luciano Sanson, uomo buono e imparziale, nel 1975  fece questa intervista a Biagio Marin che da una luce nuova e spiega, descrivendone le ragioni, alcune delle spigolosità dell' uomo Marin oltre che del Poeta.

Biagio Marin nacque  nel 1891, «l'anno in cui i'imperatore Francesco Giuseppe venne a Gorizia per celebrare non so quanti secoli di dominazione austriaca», se Grado non fosse stato sotto l'Austria, molto probabilmente lui non sarebbe mai diventato un poeta, anzi il poeta del nostro paese.

«Allora non c'erano scuole italiane e ho dovuto frequentare quelle tedesche», racconta Biagio Marin. «L'italiano lo si studiava soltanto due ore la settimana ed era una lingua per me pressoché sconosciuta, perché parlavo tedesco e a casa, con gli amici, usavo il dialetto. 
Infatti, quando in quarta ginnasio scrissi i miei primi versi la lingua che usai fu il tedesco. Ma avevo a Grado una compagna d'infanzia. 
Si chiamava Maria De Grassi», prosegue Biagio Marin.
 «E un giorno mi disse: "Biaseto, se vuoi fare il poeta. perché non provi a scrivere in gradese?". 
Quelle parole furono quasi una folgorazione per me. Decisi di darle retta e con mia grande meraviglia i versi mi nacquero con una facilità che non avrei mai immaginato. Quando Maria li lesse confermò la mia impressione. 
"Ma non capisci che sono molto meglio queste poesie di quelle che scrivevi prima?", disse soddisfatta. 
In quel momento capii che nel mio paese l'unica realtà che avesse valore era la lingua. La mia gente era tanto povera ma quel dialetto aveva in sé l'anima del del mio popolo e quell'anima doveva essere salvata.»

È stato così, quasi per caso, che Grado ha avuto il suo poeta e in più di sessanta anni Biagio Marin ha scritto con quella sua calligrafia piccola, nitida, ordinata, migliaia e migliaia di versi senza tradire mai il dialetto gradese. Tante poesie che lo hanno tenuto legato alla sua terra anche se viveva a Gorizia, poi a Vienna, a Firenze, a Roma e, infine, a Trieste. Quasi un disperato monologo d'amore con il paese dove è tornato da qualche anno per vivere, come dice lui, la sua agonia. Ma la Grado di oggi Biagio Marin non la riconosce più.

«Credo che sia diventata soltanto una fabbrica di turismo», commenta. «"Grado, vile città di camerieri !" si potrebbe definirla così, con ironia, perché non c'è vita culturale. L'unica aspirazione di tutti quanti è quella di essere o di diventare dei piccoli borghesi. Ho ormai pochi amici», aggiunge. «Ed è triste vedere che qua nessuno bada ai miei versi. Forse, mentre credevo che scrivendo in gradese mi sarei avvicinato alla mia gente, non mi ero accorto che la mia poesia non era popolare.

Il Duomo, la Basilica di Santa Maria, il Battistero, costruiti tutti nel VI° secolo dal patriarca Elia, la casa dove è nato, proprio là, vicino a Santa Maria delle Grazie, sono gli unici luoghi che gli ricordano la sua Grado. Quella che Biagio Marin continua a sognare. Il paese di tanti anni fa, quando suo padre navigava su un "rabaccolo" fra l'Istria e la Dalmazia trasportando vino.

«Mio nonno possedeva un'osteria e io là dentro feci la mia prima scuola, fra tutti quegli avventori che si chiamavano "compare" che mi sembravano tutti un po' miei parenti », ricorda Biagio Marin. «Avevo poi una nonna formidabile. Pensi, era una pescatrice di laguna. Si chiamava Antonia, nona Tonia, ed è stata una donna che mi ha insegnato molte cose perché era saggia anche se non aveva studiato. Mi ricordo che quando avevo quindici anni e cominciavo già a polemizzare con i preti mi disse: "Figliolo, non essere cattivo con loro. Guarda, son poveri uomini che si sono assunti impegni più grandi di loro. In realtà portano una grave croce. Noi dobbiamo aver pietà di loro e non odiarli e non essere severi."» 

È tra le pareti della sua casa tutto il mondo di Biagio Marin. Nel piccolo studio rettangolare, con la scrivania vicino alla finestra che dà sul mare, gli scaffali colmi di libri e dei grossi volumi rilegati che raccolgorno il suo diario, che scrive dal 1940, ininterrottamente, tutte le mattine alle cinque.


«Non lo ha letto ancora nessuno», spiega. «Tutte queste pagine potranno essere pubblicate soltanto dopo la mia morte.» 

È un'altra delle amarezze che Biagio Marin non dimentica e che lo hanno fatto rinchiudere sempre di più nel la sua casa, a scrivere, leggere, curare la grande collezione di conchiglie marine che sono centinaia, sparse un po' dovunque e che raccoglie da anni. Esce raramente e insieme con sua moglie, Giuseppa, percorre i novecento metri di un solitario lungomare proprio dietro la sua casa. Sono brevi viaggi per osservare da vicino quella spiaggia che i gradesi chiamano «Costa Azzurra» .

«A ottantaquattro anni. mi considero quasi sulla soglia del paradiso», confessa Biagio Marin. «La vita va via, la vita scorre ed io ho l'amarezza di essere un poeta lasciato un po' in disparte perché scrivo in dialetto. Ma non importa. L'amarezza resta e io continuo a scrivere. Lo sa quando nascono le mie poesie? La sera, fra la veglia e il sonno. Le scrivo in cinque minuti, attacco la prima parola e vado fino in fondo. Qualcuno mi ha accusato di scrivere troppo, che questo va a scapito della qualità. Non importa. Anche la più povera cosa che si possa scrivere può avere un valore, eppoi, se un uomo, per quanto modesto sia, riesce a registrare le sue ire, le sue commozioni, dà un segno di umanità.»


E "Biaseto" di umanità, di vivacità ne ha ancora molta. È capace di grandi ire, di grandi amori, è persino capace di conservare eterni rancori. A Grado è nato, vive, scrive nel suo dialetto ma è stata Trieste l'unica città che lo ha capito, onorato, nei trenta anni che vi ha vissuto come professore di fi losofia, vivendo la cultura di quella città, diventando molto amico di Scipio Slataper fondando con lui il famoso Circolo della Cultura e delle Arti. 

«Trieste non la potrò mai dimenticare», dice commosso Biagio Marin.

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