A completamento delle fatiche del Festival l' analisi critica dei testi da una chiave di lettura diversa dall' ordinario, Matteo Marchesan sogna e fa sognare con le parole.
Io approffitto per fare gli auguri di Pasqua a tutti, ma proprio tutti.
UN FESTIVAL … PER SOGNARE!
Ho voluto sperimentare una chiave di lettura diversa dei testi della 47° edizione del Festival
della Canzone Gradese, analizzandoli non singolarmente, ma considerandoli come canti del
grande poema della “ g r a i s a n i t à “, alla ricerca di un motivo ricorrente ed unificante, ed è stata – lo riconosco - un’esperienza nuova, utile e gratificante.
C’è un vocabolo trasversale che compare frequentemente nei testi dei brani presentati
quest’anno 2013 ed è “ s o g n o “ , parola che conferisce una chiara impronta a questa
rappresentazione, una svolta rispetto ai contenuti proposti lo scorso anno, segno che qualcosa sta
cambiando nella mentalità dei più giovani autori rispetto ad una visione segnata per molti dalle
difficoltà esistenziali nella vita di relazione, più volte rimarcata nelle ultime edizioni.
Ben venga dunque un Festival… per sognare e per far sognare.
Certo, si può sognare per sfuggire alla realtà presente con le sue contraddizioni, indossando le ali
della fantasia e della pura immaginazione, ma anche per progettare il proprio futuro, per
migliorarsi, per ripensare al proprio percorso umano, per elaborare desideri, aspirazioni, magari
rischiando di cadere nell’illusione o addirittura nell’utopia, spesso devastanti e micidiali. Credo,
però, che in questo caso il termine abbia per lo più un significato positivo, se evidenziamo i testi in cui compare in forma esplicita o anche velatamente nascosta.
Seguendo rigorosamente l’ordine della presentazione ufficiale della serata, già la prima
canzone, “Un’ora de tu”, in cui Alessio cerca una “Nova emossion pe’ sognâ ,” e dice “Fâme vîve ‘l sogno… La gno vita co’ tu”, affronta questo concetto. Par di capire che si tratta di un sogno
irrealizzabile, illusorio, visto che la casa è ormai vuota, buia e sola, ma l’autore chiede
contraddittoriamente un’ora ancora, per cancellare definitivamente il ricordo di un legame.
In “L’onda sita” Riccardo afferma “Gravo tanto belo che par de vîve senpre drento in t’un sogno” e aggiunge “ma i sogni più beli xe quii che anche te confonde la mente”, lui che all’inizio dice “Son quel àlboro a mesa strada fra Gravo e Belvedèr”, per concludere “Quel àlboro son me… e nessun se acorze de elo”, lasciando spazio ad una speranza di riscatto, ad un’onda silenziosa che può far scomparire gli aspetti più bui dell’attualità.
No xe sima che pol ligâ a la vita / no xe palo che daga sicuressa” confessa, in “Comò sbruma de
un’onda” con una visione saggiamente pessimistica della vita nella sua brevità, paragonata alla
schiuma di un’onda, Renato, sognando “L’aqua calma, sigura, de laguna che se ‘npissa de luse
matutina”, cioè l’entusiasmo e la vitalità di “Do batèle ligae… dute do de prova”.
“Gravo cantòn de paradiso / logo de sogno de serenitae” canta Nevio in “Soravento buora”, in un
testo che rispecchia il suo essere tendenzialmente propenso alla fine ironia e alla frase franca e
che descrive con una narrazione realistica le situazioni meteo più critiche di Grado (piova, vento,
bufera, sionere), la quale, non ostante tutto, resta il suo “paese da sogno”, considerato in ciò che
ha di positivo, dove gli piace vivere. Il brano, che vince questa edizione del Festival bissando per
l’autore il successo dell’anno precedente, risulta da un miscuglio sapiente di ingredienti
apprezzabili.
Mi sono poi chiesto che cosa sogna Andrea, giunto terzo, con “Le gno busie più grande”, che canta il suo amore, nel dubbio se sia frutto di libera scelta o di un errore, se non addirittura dell’odio… ed è il sogno inespresso di un sentimento importante, che esca dal cuore troppo piccolo per contenerlo, per trovare un luogo dove possa essere ospitato nella sua totalità, in un “mar sensa onde”.
Beatrice, poi, scrivendo un canto d’amore intitolato proprio “Sogno”, inizia il primo verso in
seconda persona con “Sogna una porta ai confini del sielo” e poi riprende il motivo nel verso in
prima “Sogno che l’amor tra me e tu sia infinìo”: lo dice una ragazza di 16 anni, che ha cioè l’età
giusta per sognare e diventa, in un certo senso, l’emblema di questo nuovo indirizzo del Festival,
classificandosi con Elia e Mabel al secondo posto nei voti del pubblico. Sentirli parlare di infinito, di eternità e profondità dei sentimenti dà, sinceramente, i brividi!
Andrea in “Aqua alta” sembra, ad una lettura superficiale, decrivere un noto fenomeno
idrodinamico delle nostre lagune, rimanendo “con i piedi per terra”, se così si può dire in questo
contesto, ma ad un’analisi più in profondità si scopre il significato metaforico ed autobiograficointeriore del messaggio: “…tu me son cressùa drento…”, dove “…ormai xe duto un…”: il “mar de siroco al schissa, al lava, al sala per duto”, per comunicare che le tempeste purificano e danno nuovo sapore all’esistenza. Se questo non è un sogno…
Riconosco un certo pudore nel commentare il testo di Marco, studioso e letterato di livello,
intitolato “La Varvuola”, presentato con un’eccellente coreografia di grande effetto scenografico:
il personaggio rappresentato, espresso con un linguaggio esteticamente ineccepibile, tolta la
maschera, appare nella nudità della solitudine, della tristezza e dell’insicurezza . Il suo sogno è che la gente la ami, la applauda, la acclami, almeno per un giorno! Tutta l’umanità porta una maschera al volto ed è questa – sostiene amaramente Marco - la “normalitae”.
Andrea in “Quel giosso de me” prosegue con la sua linea – per così dire - “minimalista”, dosando
garbatamente in passato il tempo e ora se stesso, con una particella che si addormenterà
appoggiata all’anima dell’altra. E’ un sogno generazionale, svelato nel passaggio conclusivo al
plurale : “Sarà quel giosso de noltri a sfamâsse de sogni, e date novi ricordi”, dove sogno e realtà
convivono, per lenire il dolore, le lacrime, i sospiri, cercando nel firmamento l’astro più luminoso
per provare “la magia de un brivido”, un gesto d’amore che ha un nome.
“Tunin” di Gabriele si presta ad interpretazioni diverse: sul piano sociale è una denuncia contro la
marginalità; su quello umanitario è un invito a non dimenticare chi, uomo come noi, soffre nella
solitudine; su quello religioso è un atto di non-prossimità: “E li vardemo lassànduli ‘ndrìo”. Ma
comunque lo si voglia leggere, il testo si riferisce, con un chiaro, coraggioso e universale
ammonimento, all’impossibilità per qualcuno di sognare dovuta alla nostra indifferenza: “Ma che
zente semo se… se desmenteghemo che / oltri comò noltri no i possa mai sognâ”.
Ilario non è nuovo al tema del “sogno”, sul quale si è già espresso altre volte, e anche con rilevante successo.
La sua “Ani Sessana” è la nostalgica rassegna della Grado di quegli anni “maravegiusi”,
”bei ricordi ‘ntel cuor”, “Sogni e puisie de ‘n tenpo che fu /Gravo à fato sognâ”, ravvisando nella
qualità dell’offerta musicale e dell’accoglienza agli ospiti la peculiarità di un tempo ormai
tramontato.
Sappiamo che Damiano coltiva l’ars e ne è un’ulteriore prova, se ancora ce ne fosse bisogno,
l’immagine di “Forcola e remo”, metafora di un amore condito con i segni del tempo, “de un remo stanco che va ‘vanti / co’ la forsa de l’amor”. E’ la fatica del vivere, che solo l’amore e lo stare insieme tenace riescono a superare, aprendo lo spiraglio ad un sogno che forse molti vorrebbero tacitamente realizzare.
“Do cuori più lisieri” è una bella immagine della lievità, che vince la stanchezza e il dolore di una “forcola e remo fruai”.
Se -come dice Leonardo- la magia del Festival, nell’orientamento generale della
manifestazione, è che “i graisani i fa su al gemo de’ sogni, ricordi e speranse consando le nove
cansòn…”, l’analisi critica dei testi non può che confermare l’originalità e la vitalità di questa
tradizione, segno inequivocabile dei fermenti ideali e culturali che alimentano l’anima giovane dei
protagonisti.
Grado, 28 marzo 2013
Matteo Marchesan