Capita alle volte al bar di trovarti in compagnia occasionale con "un ciapo de mamuli" ragazzi che ti conoscono e si parla.
Si parla di passato ed è il mio campo, si parla di futuri ed è il loro campo, si parla di presente ed è terreno comune.
Parlare con loro è stato per me come bere acqua fresca e mi ha spinto a fare delle considerazioni sulla nostra gioventù, così maltrattata e con sulle spalle gli errori di almeno due generazioni.
Si tende a ridurre la questione giovanile a un problema di eccellenze non riconosciute, di cervelli in fuga, di meriti sottostimati.
Si dimentica la fatica e la frustrazione dei non eccellenti, la grande massa di ragazzi che magari non ha ambizioni professionali particolari, ma vorrebbe lavorare e campare con uguale dignità, e vivere con costrutto una vita autonoma.
È un segno dei tempi.
Si crede e si fa credere che le società funzionino solo per l’ abbrivio del talento, per la forza dei migliori, dimenticando che il benessere della società è frutto di un processo corale, collettivo, e la serenità degli individui, anche degli «eccellenti», non è concessa al di fuori di un miglioramento della vita, se non di tutti, di molti.
È vero che la selezione dei meritevoli è, nel nostro Paese, inceppata, spesso umiliata dal clientelismo, dalle baronie, dalla mafiosità.
Ma non è umiliando o dimenticando i secondi, e i terzi, e i quarti, che i primi avranno soddisfazione.
Il successo professionale, tra l’altro, non è la sola misura del valore umano.
Ce ne sono infiniti altri.
Ho conosciuto qualche «eccellente» odioso, e umanamente minimo, e molte persone umili di grande spessore, capaci di dare agli altri qualcosa che non è quantificabile in uno stipendio o in un titolo di studio.
Credo, o spero, che i ragazzi sappiano che la posta in palio non è solo spianare la strada ai più bravi, ma restituire la percezione di un futuro possibile a tutti.