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27 dicembre, 2022

UNA MAMOLA DI LETA E COLO'

Una   poesia passionale di Menego Picolo (Domenico Marchesini)   che in un mondo aspro che sa di amaro e di sale come le alghe dei suoi e nostri lidi riesce a essere  amorevole e far dialogare due innamorati in un controcanto incantevole, raccontando di un amore per cui  la ristrettezza della quotidianità quasi scompare per far posto a un paese di favola, dove si fanno pesche miracolose e il denaro guadagnato si spartisce a peso.

 Esagerazione sentimentale?  E' poesia.


Il dialetto che usa Menego Picolo è straordinario, il nostro antico dialetto, con le h aspirate, il dialetto popolare non ancora contaminato dai mille tentacoli della civilizzazione.



Colò e Leta


Colò

                          M.                                       Mo, volaravo fahte una rigina           

se fosso me 'l comandaor del mondo,

si tu de la vita prao de ruose

digo dal bon, e a dih no me confondo.

Si quando che te incontro per le strae

me sbalsa 'l cuor da 'l peto e perdo 'l fiao;

me basta una to ocià per consolahme

e che de morto sio resussitao!

che co tu sta muagiua galantina

e liegra tu faveli co quel viso,

me par si i lavri tovi a spuah fiuri

e me a sbolah de zogia in Paradiso.


                         Cussì le contentisie de 'l to peto                     Leta

'le passa inte 'l gno cuor a palotae

e duto 'l sangue drento de le vene

me sento a scoreh e bogeh in veritae!

perchè te vogio ben milanta mundi

e in mente co ìl Signor t'he sempre buo,

si si colone mie, Colò fra mio

dal di che a Gravo qua t'he cognossuo;

e me tromento e smanio e pianzo zita

co no tu vien catahme o gno zogelo

co la to nazarena petenagia


che tu sumigi un anzolo del Cielo!



--

 


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ODORE E CORRIERA E. LOTTA DI CLASSE


 Ci sono cose che nella vita sono cambiate nel tempo e non saprei se in meglio o in peggio, perchè il mutamento è stato lento, quasi per far dimenticare il pregresso, una di queste è certamente l' odore.


Un tempo i corpi delle persone emanavano un odore diverso da quelli di adesso. 


Anche l’aspetto era differente, un pescatore, un manovale, lo distinguevi dalle mani callose, dal corpo asciutto e sodo, ma già vecchio di fatica a poco più di quarant’anni. 


Anche il modo d’esprimersi e quindi quello di pensare segnavano non poche differenze dai modelli odierni.   


C’erano molti più pregiudizi, ma anche più franchezza. 

Una puttana non era una escort e i suoi clienti non se ne vantavano in pubblico.


Anche le abitazioni e i locali diffondevano odori che non si facevano dimenticare. 


C’erano delle zone in Paese che sapevano di fumo anche in piena estate e delle bettole di cui indovinavi i piatti prima ancora d’entrare. 


Che poi il menù era quello, se no dove andavi? 

La birra era scarsa e il vino forse più genuino (bianco o rosso), ma mediocre senz’altro. 


Il cesso, quando c'era aveva il suo odore, ovviamente era alla turca e quando tiravi la catena ti bagnavi le scarpe. 

E le cabine del telefono non avevano una fragranza migliore.


Indelebile l’ odore delle corriere stipate di studenti e operai, quelli che non avevano la Vespa. 


Non era solo nicotina senza filtro, era lotta di classe. 



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26 dicembre, 2022

I LOVE YOU


 io amo in gradese   piccola suite per l' la mia vita di claudia


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commento del faro


                                                                             

                                                                     El Faro


Gera una volta, in meso del palù,

un faro vecio duto carolao;

la dosana lo veva colegao,

ma ben o mal el steva incora su.



Ma che bei timpi quili in zoventù

cò i lo veva piantao la sul canal,

vestio de rosso comò un gardenal

col sielo vasto e alto a tu per tu.




Che festa alora cussì drito e novo

per sfida messo a ninbi e fortunali;

duto 'l mondo riflesso in t'i fondali,

duto quel mondo belo 'l gera sovo.




Vigniva a gara i ciapi de corcali

su la so testa a coronalo in bianco;

elo, da re, el steva drito e franco

in meso al svolo dei bei vassali.




E 'l sol, che festa! e l'aqua, quanti basi!

che notade cò l'aqua verdulina!

basi la sera, basi la mantina:

e quela---.




Po, co la gera stanca, 'l palo rosso

specieva drento de ela la so fiama

e comosso al penseva: si la me ama...

e gera sogni in quel so cavo grosso.




Cussi sognando 'l se desmentegheva

dei nuoli colorai e de le stele

e no 'l vegheva più passà le vele,

perso in t'el baucà de la so freva.




E 'na vogia i vigniva tormentosa

de colegasse su quel' aqua queta;

ma l'aqua la diseva: speta, speta,

colorandosse duta de un bel rosa.




Colegasse su ela e puo 'ndà via

lontan, per sempre, fra i so brassi moli,

comò che 'ndeva via pel sielo i nuoli,

cò la luse festosa in conpania!




Senpre più zoso, senpre più sbandao,

senpre più stanco, senpre più sbiadio,

el vecio faro un dì ze 'ndao con Dio,

perchè l'amor lo veva consumao.

Secondo me la più bella del Poeta, quella dedicata alla sua storia a sua moglie, alla vita.


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EL. FARO


                                                                             El Faro


Gera una volta, in meso del palù,

un faro vecio duto carolao;

la dosana lo veva colegao,

ma ben o mal el steva incora su.



Ma che bei timpi quili in zoventù

cò i lo veva piantao la sul canal,

vestio de rosso comò un gardenal

col sielo vasto e alto a tu per tu.




Che festa alora cussì drito e novo

per sfida messo a ninbi e fortunali;

duto 'l mondo riflesso in t'i fondali,

duto quel mondo belo 'l gera sovo.




Vigniva a gara i ciapi de corcali

su la so testa a coronalo in bianco;

elo, da re, el steva drito e franco

in meso al svolo dei bei vassali.




E 'l sol, che festa! e l'aqua, quanti basi!

che notade cò l'aqua verdulina!

basi la sera, basi la mantina:

e quela---.




Po, co la gera stanca, 'l palo rosso

specieva drento de ela la so fiama

e comosso al penseva: si la me ama...

e gera sogni in quel so cavo grosso.




Cussi sognando 'l se desmentegheva

dei nuoli colorai e de le stele

e no 'l vegheva più passà le vele,

perso in t'el baucà de la so freva.




E 'na vogia i vigniva tormentosa

de colegasse su quel' aqua queta;

ma l'aqua la diseva: speta, speta,

colorandosse duta de un bel rosa.




Colegasse su ela e puo 'ndà via

lontan, per sempre, fra i so brassi moli,

comò che 'ndeva via pel sielo i nuoli,

cò la luse festosa in conpania!




Senpre più zoso, senpre più sbandao,

senpre più stanco, senpre più sbiadio,

el vecio faro un dì ze 'ndao con Dio,

perchè l'amor lo veva consumao.

Secondo me la più bella del Poeta, quella dedicata alla sua storia a sua moglie, alla vita.


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25 dicembre, 2022

GIOVANNI MARIN. DETTO. (archimede)


 la figura di Giovanni Marin detto Archimede o Giovanni delle vide. Giovanni era un personaggio incredibile per genialità e capacità pratica di mettere in atto tutte le idee che la sua mente vulcanica partoriva. Aveva anche un lato teatrale che lo portava a padroneggiare la scena ovunque si trovasse. Mi piace ricordare un episodio che ho vissuto con lui in occasione di una gita in Laguna dei bambini del nostro asilo. Arrivati in motonave nell'Isola dei Orbi, di proprietà di Giovanni, ci accolse sull'imbarcadero con un grande cappello e una benda nera. Sbarcati i bambini, tutti timorosi, Giovanni con voce tonante diede il benvenuto a tutti. Ci sedemmo a tavola per consumare la colazione e Giovanni raccontò la storia dell' Isola e del perchè venisse così chiamata. Ad un certo punto un bambino più vivace degli altri si avvicinò ad un grande timone di nave posato sulla parete del casone e chiese cosa servisse, al chè Giovanni prontamente gli impose di allontanarsi perchè quello era il timone dell' Isola e serviva per tenerla in rotta. Dopodichè si avvicinò al timone e con voce grossa disse a tutti "tignive duri sulla banca che devo 'ndrisà l'isola". Tutti i bimbi si tennero sul bordo del tavolo e si piegarono dal lato che Giovanni mostrò loro per seguire la curva dell'Isola. Questo era Giovanni Archimede un uomo di popolo e a disposizione di tutti, spero che in Paradiso metta a posto tutte le tubazioni che perdono trovandole con il "vatecatometro" come faceva a Grado per il nostro monsignore. Ciao Archimede.


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GRADO. E ' CAMBIATA


 


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DIAMO VITA AI SOGNI

Auguro a tutti uno stupendo 2012 che troviate davvero la vostra strada, che conosciate l’uomo o la donna della vostra vita, che troviate il lavoro dei vostri sogni o semplicemente che otteniate un aumento in quello attuale.


Soprattutto di appassionarvi a qualcosa, qualsiasi cosa sia.


Le passioni sono importanti, sono ciò che danno un senso alla vita; che sia uno sport, un hobby, difendere il proprio Paese o il bunga-bunga.


Quello che si scrive e i post in particolare sono, in genere, così effimeri, farfalle di parole che svolazzano in cerca di essere lette.


Il blog non ha altro da offrire che pensiero impermanente, che accarezza e non percuote la mente, ma stimola e offre tracce di sentieri virtuali che sta a ciascuno di noi decidere se percorrere o meno.


Ma volere è potere eh: si decide, si fa.


Diamo vita ai sogni, è futuro!

 


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LETA E COLO


 Una   poesia passionale di Menego Picolo (Domenico Marchesini)   che in un mondo aspro che sa di amaro e di sale come le alghe dei suoi e nostri lidi riesce a essere  amorevole e far dialogare due innamorati in un controcanto incantevole, raccontando di un amore per cui  la ristrettezza della quotidianità quasi scompare per far posto a un paese di favola, dove si fanno pesche miracolose e il denaro guadagnato si spartisce a peso.

 Esagerazione sentimentale?  E' poesia.


Il dialetto che usa Menego Picolo è straordinario, il nostro antico dialetto, con le h aspirate, il dialetto popolare non ancora contaminato dai mille tentacoli della civilizzazione.



Colò e Leta


                           Mo, volaravo fahte una rigina                      Colò

se fosso me 'l comandaor del mondo,

si tu de la vita prao de ruose

digo dal bon, e a dih no me confondo.

Si quando che te incontro per le strae

me sbalsa 'l cuor da 'l peto e perdo 'l fiao;

me basta una to ocià per consolahme

e che de morto sio resussitao!

che co tu sta muagiua galantina

e liegra tu faveli co quel viso,

me par si i lavri tovi a spuah fiuri

e me a sbolah de zogia in Paradiso.


                         Cussì le contentisie de 'l to peto                     Leta

'le passa inte 'l gno cuor a palotae

e duto 'l sangue drento de le vene

me sento a scoreh e bogeh in veritae!

perchè te vogio ben milanta mundi

e in mente co ìl Signor t'he sempre buo,

si si colone mie, Colò fra mio

dal di che a Gravo qua t'he cognossuo;

e me tromento e smanio e pianzo zita

co no tu vien catahme o gno zogelo

co la to nazarena petenagia


che tu sumigi un anzolo del Cielo!



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IL CONTE DI GRADO


 Il Palazzo del Conte


Il   Comune di Grado ha storia antica e la democrazia è fatto compiuto sulla nostra Isola da 800 anni.

Con la dipartita del Patriarca da Grado a Venezia, per assicurare alla città continuità amministrativa e politica il Doge Veneziano nominò un patrizio responsabile della gestione del potere a Grado: 
                                                                Il Conte di Grado

Il primo Conte di Grado è stato, Gabriele Barbarigo nel 1266. 

Il nostro reggente aveva il titolo di conte in quanto non era responsabile solo della città ma anche del vasto territorio che la circondava, la nostra laguna. Comitatus Gradi, Contea di Grado. Seguendo le tracce del Caprin, presso l'Archivio di Venezia si nota che in verità la serie dei nostri conti non inizia nel 1266 bensì prima ( tra la fine del 1100 e l'inizio del 1200): 1265, Eliodoro Vidal: 1233, Johanni Corino; 1226 M. Conzabote; e prima, in data non verificata, tale G. de Vigna di S.Fosca.

Egli rappresentava la massima magistratura locale e riassumeva in sé una pluralità di funzioni, fatto abbastanza eccezionale rispetto a tanti altri liberi Comuni del Nord: non solo era podestà, ma giudice, amministratore ed esattore. 
La durata del suo incarico risultava dapprima di 16, poi di 12 mesi, secondo il principio romano dell'annualità delle cariche pubbliche. 

Presiedeva il Tribunale, intratteneva stretti rapporti con la Serenissima, indiceva e presiedeva le riunioni del nobile Consiglio, che deteneva il potere decisionale sulle più importanti proposte che riguardavano l'intera comunità, perché: “L’isola dipendeva bensì da Venezia nelle cose d'interesse generale, ma conservava propria autonomia" (Caprin).
Inizialmente il Consiglio era formato dai membri di sette famiglie patrizie e rispecchiava la forma di governo oligarchica di Venezia; in seguito fu allargata la base del suo elettorato passivo. 

Era composto da un numero variabile di membri, solitamente da 25 a 40 e forse più in alcuni mandati, e veniva convocato al suono della campana civica e dalla voce del banditore, nel Palazzo del Comune. 
I suoi compiti erano fondamentali per la vita dell'Isola, perché, oltre ad eleggere tutti i magistrati comunali, deliberava sulle questioni generali ed emanava i relativi editti.
Come in tutti i liberi Comuni del periodo, l'organismo propositivo e sovrano era rappresentato dall'assemblea popolare o Arengo, che anche a Grado veniva riunito dal podestà periodicamente e in caso di necessità e urgenza o per assistere alle riunioni del Consiglio gradese, che "era la più bella e più pura incarnazione del Comune italiano" (Caprin). 

Dal XIV secolo in poi le decisioni non si basavano più sulle regole consuetudinarie antiche di tradizione orale, ma sugli Statuti Gradesi, che il Consiglio emanava, soprattutto per fissare inequivocabilmente l'ordinamento del Comune stesso e le principali norme riguardanti i cittadini. 

Oltre ad essi vi era il Libro dei Privilegi, che conteneva le esenzioni di cui godeva Grado per concessione della Serenissima in merito, per esempio, al diritto di pesca e al commercio con l'entroterra.
Le magistrature previste dagli ordinamenti comunali ed elette dal nobile Consiglio erano: i due Camerlenghi, che si occupavano dell'amministrazione del denaro pubblico e della contabilità del Comune; il Comandadôr, che svolgeva compiti esecutivi di ufficiale giudiziario e sanitario ed era responsabile della pubblicazione degli editti e delle grida; i tre Giudici che costituivano il Tribunale, presieduto dal Conte, che pronunciava le sentenze civili per le frequenti liti tra i cittadini in ordine alle proprietà e penali per i continui lievi reati di una popolazione tormentata dalla miseria e dalle difficoltà dell'esistenza materiale (le questioni più gravi venivano demandate a Venezia); 
infine vi era il Cancelliere, segretario del Conte, al quale competevano questioni di diritto amministrativo e di carattere militare.

Questo ordinamento del Comune gradese rimase in vigore fino al termine del XVIII secolo.

Si può notare la stretta connessione tra comandanti e comandati e la voglia di trasparenza nelle decisioni da prendere al punto tale da allargare la rappresentanza popolare in Consiglio.
Pur tra le ristrettezze e gli stenti del tempo la gente veniva rispettata e se rubavano (ma c'era molto poco da rubare) lo facevano con stile.


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