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08 maggio, 2012

Riflessione sul Festival della Canzone Gradese

Matteo Marchesan, un amico colto e schivo ha scritto un resumè sull' ultimo Festival della Canzone Gradese, un percorso scritto con mano leggera e piana a fini documentari.


Una segiada de tradission

Ci sono tradizioni e tradizioni. Ci sono quelle che si originano da un preciso fatto storico locale e si perpetuano nel tempo, e quelle legate ad espressioni popolari, culturalmente più semplici e spontanee, frutto del concorso creativo e competente delle persone comuni.

Ora, paragonare il Festival ad altre manifestazioni o addirittura stilarne una graduatoria non ha nessun senso, perché sono fenomeni sostanzialmente diversi, ma di pari “dignità” in quanto a valore ed a carattere identitario.

E’ pur vero che le tradizioni storiche gradesi in senso stretto sono due ed affondano le loro radici nel Basso Medioevo, nel dodicesimo secolo il “Manzo ‘nfiocao”, in quello successivo il “Perdòn de Barbana”, ma anche il Festival della canzone gradese è a buon diritto una tradizione, perché i suoi canti “storici” sono ormai patrimonio consolidato della cultura popolare collettiva e specchio della nostra identità.

Quindi è corretto riconoscere sullo stesso piano una tradizione di carattere folclorico e di significato religioso, una di carattere civico-militare e di significato politico, una di carattere popolare e di significato culturale, nata più recentemente e giunta, con qualche forse provvidenziale soluzione di continuità, sino all’attuale quarantaseiesima edizione.

Ci sono poi canzoni che guardano al passato, altre al presente, alcune al futuro, osservano cioè la realtà da prospettive temporali diverse.
Pur avendo ottenuto quest’anno il maggior numero di consensi una canzone rivolta a usanze della seconda metà del secolo scorso, la maggior parte dei testi dei motivi in gara in questa edizione sono orientati al presente e rispecchiano la realtà dell’attuale società con i suoi problemi e, a livello individuale, le criticità psicologiche nella vita affettiva di coppia, intesa in senso ampio. C’è allora più bisogno di amore che di speranza nei giovani? C’è più attenzione all’oggi che al domani? Mancano dunque le aperture, le prospettive?

Sicuramente il quadro della situazione, analizzandone i contenuti, risulta complesso, varie sono le esperienze soggettive, ma comunque quasi tutte riconducibili al concetto di “liquidità”, come caratteristica dei sentimenti, e quindi all’instabilità emotiva, che genera insicurezze e fonda il bisogno di una certezza affettiva. 

Ne è sintomo, innanzitutto, l’avverbio “’Ndola”: ben due autori lo hanno scelto come incipit dei loro testi ed è una domanda di senso smarrito, nell’analisi introspettiva degli errori commessi, del significato di una presenza o di un’assenza. C’è poi il tema della “fregola”, che richiama il concetto delle “stienzere” della scorsa stagione, che ne ha visto il trionfo a diversi livelli: le cose semplici, piccole, gli attimi stanno a significare il bisogno dell’essenziale, dell’ “essere pienamente soddisfatti di vivere con poco”, ma anche la mancanza di unitarietà, lo spezzettamento delle vite, briciole e frammenti di esperienze di superficie in termini relazionali ed affettivi.
Insomma, un festival “liquido”, espressione di una società “liquida”, a scapito probabilmente della “graisanità”.

In questo senso, è inutile chiedersi se il Festival rappresenti una tradizione banale o una continuità innovativa, perché esprime semplicemente un momento difficile, con oscillazioni in avanti e all’indietro, fughe nel bisogno di ricostruire relazioni naufragate, decisioni sofferte e laceranti, insuccessi conclamati sul piano umano ed affettivo, vuoto, delusione, autostima ai minimi storici, rimorsi e rimpianti, incapacità di scelte coraggiose ed integrali.
Se il Festival è riuscito ad esprimere tutto questo, è veramente un ritrovarsi nell’autocritica, per riprendere un cammino comunitario marcato da una crisi sociale di fondo, ma anche dalla fiducia in un benessere futuro, in un rischio esistenziale che apra nuovi spiragli al dialogo, all’accoglienza reciproca, alla condivisione, nuove aperture all’altro e all’altra, amico o sodale di viaggio o di avventura o di una vita.

Le risposte e le proposte degli autori sono molteplici. 
Seba e Gian cercano l’origine e la motivazione dell’errore (“perché de un momento a ‘l oltro duto xe ganbiao”);
Riccardo accusa un’assenza (“Tu son ‘ndagia via da la vita mia”); 
Giovanni e Domenico sublimano l’affezione ad un’atmosfera stagionale, che invita a “stâ insieme tra de noltri”;
Roby e Mabel risalgono all’inizio dell’esperienza affettiva adolescenziale e alla magia dell’innamoramento e de “al primo baso”
Alessio e Marzio minimizzano gli eventi tristi (“Sintiminti…tracanai…e spuai”) e si volatilizzano nel vento per provare “una fregola de zogia”
Alberto con Gianni apre ad una speranza nuova la voglia di navigare (vivarè felisse l’ultima mia stagion”;
Marco e Francesco diffondono fremiti di tradimento, di abbandono, di pianto (lasseme ‘ndâ”); Andrea propone digressioni spaziali, surreali, “fra una làgrema e un soriso…per scanpâ de questo mondo”;
Niki sostiene che l’amicizia vera è solitudine condivisa per le “mamole moderne…amiche per sempre”, desiderose di ripartire;
Gabriele e Andrea esprimono voglia di ricominciare, di rinascere grazie a “un soriso novo”, a una nuova favola;
Stefano non rinuncia ad un estremo, improbabile tentativo di riconciliazione, in una “storia ‘ndagia a tochi”.

E Nevio e Giulia? Sono al di fuori di tutto questo?
No assolutamente, sono loro, padre e figlia, figlia e padre, innamorati di un rapporto vero, che testimoniano la gioia e la complicità della vita affettiva, e lo fanno con una canzone “scanzonata”, spiritosa, fuori dagli schemi narrativi e dai ritmi consueti, non piangendo, ma ridendosi ironicamente addosso ed attirando la sim-patia (e i voti!) del pubblico per l’originalità controcorrente di un legame valido e sincero, stabile ed appagante. Non si tratta di una “furberia” , ma di un’intelligente proposta di un modello positivo, riuscito, nel clima desolato di crisi di identità e di ruolo e di fuga dalla concretezza, che caratterizza la nostra società e che il Festival 2012 ha, consapevolmente o meno, trasmesso. Questa coppia inedita diventa l’emblema del successo nella festa e nella vita e suggella le radici di un legame autentico. In questo senso rappresenta sia una formula sociale tradizionale sia una prospettiva significativa rivolta al futuro, perché i rapporti saldi e lievi non sono “zu Vermieten”.

matteo marchesan


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2 commenti:

nevio ha detto...

Forse per la velocità che viene impressa, anzi con la nota immediatezza, l'8 maggio è già lontano sulla scia di un' elica. Garbata riflessione che letta attentamente scopre o ri-scopre diversi valori che sembrano sopiti, se bastasse una scanzonata canzone, nata non per gareggiare ma per far cogliere, come Te hai ben colto, i significati profondi di un legame dalle radici profonde. Non abbiamo usato (abusato) amore nelle parole ma tutto è amore. Leggere le riflessioni oltre a dar merito all'autore permette di espandere la riflessione veicolata dai testi e dalla musica festivalieri. Vorrei aggiungere riflessioni su riflessioni, commenti su commenti, ma forse è tempo di gustare con onestà intellettuale questo spaccato culturale che contraddistingue i graisani.
Grazie Matteo, mentre prenoto un'approfondimento insieme, diretto. Face to Face, insomma viso co' viso.

Anonimo ha detto...

Sarà un piacere, Nevio.
Matteo