C’è un po di caligo, fuori.
Una colata di umidiccio opaco che si riversa sulle cose attorno.
Non le ricopre, non le accarezza: le offusca.
Ha il suo fascino il primo caligo di stagione, qua da noi.
Arriva come un padrone che torna a casa dopo le vacanze: ha le chiavi di tutte le porte come fosse roba sua.
Penetra dentro i vicoli, le strade, le porte, fin dentro alle giacche, alle pelle, alle ossa.
E’ dentro e fuori, non lo puoi evitare o schivarlo, come la malinconia.
Serve a farti meditare, al caligo, perché quando non vedi più le cose con il loro contorno abituale sei costretto a pensarci di più.
Cerchi di ricordare dove cominciano e dove finiscono, che forma hanno quando al caligo non c’è. Anche tu pensi e ti ridefinisci, cercandoti in quel lattiginoso bianco che riesci a fatica a respirare: senti che non sei più quello di prima, ma una cosa che si ingolferà e nasconderà nei cappotti, nelle sciarpe di lana, seppellirà i capelli nei berretti, farà pensieri che prima di uscire allo scoperto dovranno attraversare strati di stoffe.
Le parole che usciranno dalla bocca non saranno più parole e basta, come d’estate, ma sbuffi di fumo, vapore, caligo anch’esse.
Perderanno i loro contorni nell’aria autunnale. Il sole è matematica, al caligo è filosofia. Ciò che era così netto d’estate diventerà arabesco, per infiltrarsi, come al caligo, in ghirigori tra le lane dei maglioni, passare sotto le porte chiuse per paura del freddo e dell’umido. Le parole, per arrivare d’inverno, devono imparare le astuzie del caligo.
La nebbia arriva così: zac zac zac e avvolge tutto.
Come una gigantesca carta da pacchi, come un Christo velocissimo ed all’ennesima potenza, imballa ogni cosa: alberi, case, il paesaggio in blocco.
C’è sempre lo stupore della prima nebbia.
Puoi esserci abituato quanto vuoi, ma ti sorprende.
Quell’essere circondato da cose che non riconosci più e non senti più tue perché diverse ed indefinite. Il senso di spiazzamento che dà perdere i contorni ed i confini.
Non so se mi piace la nebbia, non l’ho mai capito.
Mi affascina quel suo sfilacciarsi come lo zucchero filato, appiccicarsi alle cose e deformarle, renderle sfumate; il suo costringerti ad esercitare la memoria e la fantasia per ricostruire la mappa delle tue abitudini, fatta di strade note e di angoli conosciuti.
Mi piace il suo pervadere tutto, per cui il dentro e il fuori si confondono nell’umidore ghiaccio di un’acqua che non è acqua, è vapore. Mi piacciono le gocce che fanno le equilibriste sulle ragnatele, sospese nel nulla.
Chi come me ama i contorni certi, si fa sempre sorprendere ed affascinare da ciò che certo non è, da ciò che non è conforme, da ciò che è imprevisto.
Dalla nebbia, che è questo mare di possibilità, sospeso nel nulla, e spesso, come le possibilità, svanisce, subito nel niente.
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