C’è un po di caligo, fuori.
Una colata di umidiccio opaco che si riversa sulle cose attorno, non le ricopre, non le accarezza: le offusca.
Ha il suo fascino il primo caligo di stagione, qua da noi.
Arriva come un padrone che torna a casa dopo le vacanze: ha le chiavi di tutte le porte come fosse roba sua.
Penetra dentro i vicoli, le strade, le porte, fin dentro alle giacche, alle pelle, alle ossa. E’ dentro e fuori, non lo puoi evitare o schivarlo, come la malinconia.
C’è sempre lo stupore della prima nebbia.
Puoi esserci abituato quanto vuoi, ma ti sorprende.
Quell’essere circondato da cose che non riconosci più e non senti più tue perché diverse ed indefinite.
Il senso di spiazzamento che dà perdere i contorni ed i confini.
Non so se mi piace la nebbia, non l’ho mai capito.
Mi affascina quel suo sfilacciarsi come lo zucchero filato, appiccicarsi alle cose e deformarle, renderle sfumate; il suo costringerti ad esercitare la memoria e la fantasia per ricostruire la mappa delle tue abitudini, fatta di strade note e di angoli conosciuti.
Mi piace il suo pervadere tutto, per cui il dentro e il fuori si confondono nell’umidore ghiacciato di un’acqua che non è acqua, è vapore.
Mi piacciono le gocce che fanno le equilibriste sulle ragnatele, sospese nel nulla.
Chi come me ama i contorni certi, si fa sempre sorprendere ed affascinare da ciò che certo non è, da ciò che non è conforme, da ciò che è imprevisto.
Dal "caligo", che è questo mare di possibilità, sospeso nel nulla, e spesso, come le possibilità, svanisce, subito subito, nel niente.
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