Vediamo da vicino il prodotto ittico al centro di una querelle tra pescatori professionisti e dilettanti (sic) del Golfo di Trieste (arisic).
Il cefalopode è vagantivo e anche se si può dar per certa la sua presenza, massimamente nel periodo primaverile, nel nostro Golfo prevederne le quantità è veramente arduo e difficilmente quantificabile, viste le innumerevoli variabili da considerare.
Detto questo vediamo più da vicino questo prodotto del mare così tipicamente veneto:
La seppia è un mollusco cefalopode dotato di una conchiglia interna di colore bianco, appiattita e allungata, posta nella regione dorsale: si tratta del famoso osso di seppia o barchetta.
Poroso e leggero per la presenza di numerosissime microscopiche camere interne che permettono all’animale di equilibrare il suo assetto idrostatico, con lo stesso principio utilizzato dall’uomo nei sommergibili.
I gusci di seppia più grandi venivano un tempo raccolti e forniti agli orefici che li utilizzavano per la fusione di piccoli
gioielli di oro o argento.
La livrea di una seppia viva è estremamente variabile per la presenza dei numerosissimi cromatofori, cellule che le
permettono di variare la colorazione e mimetizzarsi con l’ambiente.
Si avvicinano alla fascia costiera ed entrano anche nelle lagune in primavera per deporre le uova (ua de mar).
Le seppioline nascono a partire da giugno, e si portano lentamente verso il mare nel corso dell’estate.
Il momento migliore per l’acquisto e il consumo di seppie di produzione locale è nei mesi di aprile e maggio (a Grado il 25 aprile, giorno di San Marco, è conosciuto come “al colmo de le sepe”).
Nonostante l’importanza della specie anche per la costa occidentale dell’Alto Adriatico, in una relazione sulla pesca in Italia del 1872, a essa viene dedicata una riga soltanto: “….si smercia nel levante convenientemente seccata”. Faber, nel suo resoconto sulla pesca nel mare austroungarico (1882), conferma questo metodo di conservazione per tutti i cefalopodi e li dice oggetto di esportazione ad Est, “specialmente in Grecia”.
Artisti dell’essiccazione delle seppie erano i pescatori chioggiotti.
Forse ancora oggi sulle barche chioggiotte e lungo le calli di Chioggia è possibile scorgere qualche seppia eviscerata,
legata al sartiame o sistemata tra le imposte a seccare e qualcuno la usa ancora come gomma da masticare.
Un tempo, a bordo dei bragozzi, le seppie essiccate, dopo esser state battute come il baccalà (stocafisso), venivano messe sotto la cenere del fogon e mangiate senz’altro trattamento.
In un mercato sempre alla ricerca di nuove proposte culinarie sono sempre più frequenti le paste, il riso, i sughi fatti con il nero di seppia, il famoso inchiostro con cui la seppia si nasconde durante le fughe o copre le uova dopo averle deposte.
I cuochi più accorti fanno provvista dei sacchetti del nero proprio durante questa stagione.
D’altra parte, fin dai primordi della gastronomia italiana, le vescichette del nero venivano legate e affumicate, costituendo così il sale di seppia, “sì che quando volessi fare salsa, savore, brodo o altro mangiare nero, tu ricorra a quello” (Anonimo Fiorentino)
Insomma della "sepa" no se gheta via ninte!
Tutte le notizie mi provengono dall' amico biologo Aurelio Zentilin maranese verace.
1 commento:
no se gheta via ninte...
come el porco ;-)
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