Capita spesso di discutere del nostro grande poeta Biagio Marin e del rapporto conflittuale che ha sempre avuto con la comunità.
Secondo me, tutto andrebbe riportato a dimensioni umane, cioè:
se conderiamo non l'uomo ma il personaggio, allora non c'è storia, lo spazio siderale che divide l'intellettuale del tempo con le persone modeste che lo circondavano, strafottute da una vita infame e logorante come quella del pescatore del tempo, non lascia scampo su chi emerge, ma se consideriamo il lato umano allora un po di cose cambiano.
Il poeta, prima di esserlo, è persona, con pregi e difetti.
Ha un caratteraccio (non per niente il suo soprannome era Cavo de Nembo), è estremamente vanitoso e suscettibile, tende a considerare amici solo chi lo loda e nemici mortali tutti gli altri.
Mentre i nostri vecchi erano così pragmatici, costretti dalle contingenze a esserlo, che lo trattavano senza saperlo con quella che è la peggior cosa per chi si crede un mito, l'indifferenza, la sopportazione.
Da qua nascono gli alti lai che il Marin levava nei suoi scritti, quasi sempre lamentosi indirizzati ai suoi amici intellettuali, è "il gnanche pel cul" dei graisani che lo uccideva, lui proprio che non difettava di paraculismo e di manie di protagonismo se si è inventato di volta in volta a secondo del girare della storia, irredentista, fascista, partigiano liberatore, democristiano.
Io, seguendo le indicazioni dei miei vecchi, mi tengo il poeta, che è grande, ma boccio decisamente l' uomo, che in fondo a Grado a parte qualche nome su piazze o biblioteche ha lasciato ben poco del suo seme.
Aggiungo, per capire meglio chi fosse Marin in fondo, questa poesia (più una leccata di culo direi) dedicata al suo eroe del momento : Il Duce.
EL DOSE
Sora i nostri dolor de duti i dì,
Colda, ogni tanto, vien la to parola;
E alora i nostri cuori voI fiurì,
E i to sogni de gloria ne consola.
Alora el pan amaro l'ha l'aroma
D'eternità, e fa la primavera;
E la pena più granda se la doma,
E l'aria del sielo xe liziera.
Per quel doman lontan, ma pur siguro,
Che tu ne miti in cuor comò 'na luse,
Tornemo a navegà sul mar più scuro,
E la speransa in porto ne conduse.
Savemo la to vose:
Colda cussì che la ne porta via;
Gera le stele in alto silensiose
Per ascoltate - e i cuor in angunia.
Vigniva, quela sera,
A ventade sul mondo la parola
Che crea l'amor e fa fiurì la piera,
E no se sa d' indola.
Forse dai cuor, dal nostro patimento,
Che dura tanto e n'ha mortificai.
E tu tu son la vose del tormento,
Che 'l vento porta fin ai siel stelai.
Forse da Dio, per nostro gran conforto ;
El sielo gera pien de la to vose.
Vose de Dio, sul mar e in ogni porto,
Vose de Dio, del nostro cuor, del Dose.
P.S. Finito il periodo fascista, era il segretario del fascio a Grado, ha fatto parte del comitato di liberazione a Trieste, trasformista veloce eh ?
questa poesia non si trova facilmente ed è grazie a Bruno Scaramuzza che la posso pubblicare.
A ri P.S. noi continuiamo a vivere in questa meraviglia di Isola.
2 commenti:
Ah ah ah, bela questa, cmq al DNA graisan al zè senpre quel...."se no tu son co' noltri, tu son contro de noltri!" pre siò, bandiera de ogni vento e cul pre ogni intervento.
Val la pena de zontà do tre robe:
la "puizia" la zè stagia scrita (co' oltre do) intè 'l 1932 per un concorso (concorso vinto da un poeto de Rovigo) e despuo scangelagia da 'l opera omnia. Recordo 'ncora che 'l nostro vate in quel tenpo 'l gera fora de 'l partito e la licada la serviva pre 'vè de novo la tessera e cussì podè 'ndà via de Gravo. Ciao, B.
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