ciao
È una delle poche parole della lingua italiana che tutti, nel mondo, conoscono e capiscono: l’ho sentita pronunciare al telefono, come saluto finale, da inglesi, tedeschi, persino francesi.
In qualche modo, «ciao» è un attestato di esistenza della lingua italiana nel pianeta, insieme a parole come «pizza», «pasta» e «paparazzo».
Di «ciao» mi piacciono due cose: la prima è che – benché sia forse la parola italiana più usata in assoluto – ha una forma insolita, dal momento che non è così frequente, in italiano, trovare lemmi di quattro lettere che contengono tre vocali una dopo l’altra; la seconda è il suo etimo: deriva dal veneziano «schiao» (leggi s-ciao), ed è una forma sincopata di «schiavo».
La si usava come forma di saluto per significare «servo vostro» formula di saluto oramai desueta (analogo saluto "servus", diffuso in Austria e Baviera).
Questo senso di sottomissione ormai è scomparso, e nessuno quando saluta pensa di prostrarsi:
«ciao» è una parola nata in catene che si è liberata, a suo modo è una parola rivoluzionaria.
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