Non sono abituato così. Cazzo, no non che non sono abituato. E mi sono abituato a tutto, in tanti anni di questa vita. Ne ho ingoiati, di rospi.
Però a questo, no, non sono abituato. Cinquanta minuti.
Cinquanta stracazzo di minuti che quel dottore mi ha fatto aspettare, eppure avevo l' appuntamento.
In sala d’attesa, seduto su una poltroncina che sarà anche un mobile di design, ma è scomoda da asfaltarti le chiappe.
La segretaria nell’atrio continua a battere su una tastiera del pc che pare foderata di ovatta, e di tanto in tanto bisbiglia una risposta a chiamate così silenziose che devono telefonare solo fantasmi, in quello studio.
Ci ho provato a chiedere quando sarei stato visitato.
«Il Dottore è in visita, la farà entrare appena sarà possibile.» è stata la risposta della Vestale dai Tasti Ovattati, e nel contempo mi da uno sguardo così gelido da farmi risuonare nella testa, riaffiorato da chissà dove, un “e più non dimandare”, orecchiato ai tempi della scuola, quando la professoressa di Italiano mi diceva che ero un teppista e non avrei combinato nulla nella vita.
Così sono seduto in "spissigo de cariega", su quella cazzo di sedia scomoda, e strapazzo l' IPhone fingendo di leggere documenti che invece apro, sfoglio e richiudo senza neppure guardare, perché la coda dell’occhio è lì, fissa sulla porta di legno massiccio che resta ostinatamente chiusa.
Trrrackk. Si apre, all’improvviso, con un lugubre suono di catenaccio da porta dell’Inferno.
«Il signor nonsocometichiami? Entri!» dice, ma in verità ordina, il Dottore accompagnato da una vestale in camice violaceo.
Mi fissa, come se stesse guardando un curioso esemplare di lombrico sotto il vetrino, con gli occhi slavati di chi considera tutti lombrichi, e l’universo un vetrino da laboratorio poco interessante.
E comincio a tremare!
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