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28 febbraio, 2023

CUOR DE CASONER

Mete a posto quel che : Vemo.

AL GRAVO CHE XE! .

Magari co' un poco de bon gusto

Per noltri e pe' i foresti

- me pararave giusto:

Da ‘l Taroto a la Stiusa

e sta'i drio anche a GRAVOVECIO!

E puo xe de veghe ben LA COLMATA

questa si!

"SAREBBE UNA BELLA PENSATA!"

e ..... ne sarave robe de fa"

- dise la zente -

 e tante anche de rifà

tu sa quante! 

Comandauri

I 've pensao?

Volemo passà dal "Digo al FASSO"

prima che l'Aquagranda

rivi fin sora de'l Palasso!? 

Conferenze, Giornali

Tavole Rotonde" 

Ma i vol spiegane

o i ne vol confonde 


Insoma

"GRADO TRE" pol spetà

E un doman, perche no 

magari duto s'un colpo

“GRADO TRE"

i pol falo a Codroipo!

 

 


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27 febbraio, 2023

ALEGHE DE MAR


 Xe comò ‘1 treno su ‘na ferovia

‘sto sirocal, che duto ‘1 porta via. Drento la testa hè miera de restìe,
miera de trini che i còre a sento a ‘1 ora; mìle vaguni co’ mìle e più pensieri: forsi ilusion o forsi sogni viri. 

Nuoli che còre, el sielo quasi nero, l’aria xe scura e la pesa comò ‘1 pionbo. Sora ‘1 sabion, in mezo a mile scusse, ‘na strica scura: xe aleghe de mar... tochi de vite portae de la corente,
vite strassae: le storie de ‘sta zente! 

Aleghe de mar, aleghe de mar ghitae su ‘sta spiagia de ‘sta vita che xe comò un sirocal.
Sémo àleghe de mar, àleghe de mar che ‘1 destin l’à ‘ngrumao 

e no esiste un perchè. 

I nuoli i càge e ‘l sielo ‘1 se rebalta
su le restie che còre su ‘sto mar.
Mar comò un prao co’ i sovi mìle fiuri: miera de àneme che ‘l tenpo l’à fermao. Quando ‘sto zorno, doman, ‘1 sarà finio restarà solo quel che volarà Dio! 


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IL PORTO A GRADO. SOR IACU FRACANAPA

Leggere Massimiliano Cicogna -Massi Tachelo nel suo libretto "Le gno Do Scale" con il suo dialetto gradese della parlata popolare, ti fa rivivere quadretti di umanità struggente, ti riporta indietro nel tempo e leggendo, oltre a vedere la Grado di un tempo che fu, ne senti gli odori, i rumori della varia umanità che gira intorno ai "mamuli de Savial"


Questa volta dipinge con le parole la figura di un artigiano, un calegher, per di più friulano d'origine e quindi la presa in giro dei bambini del Savial è garantita con scoppi di rabbia del poveretto preso per i fondelli:


SIOR IACU FRACANAPA


Lo ciamévemo Fracanapa perché ’l gera de Servignan, el feva ’l calegher propio sul canton dei Stefenini.

El se veva mariao co’ una de Gravo, el gera mundi cativo e ’l sigheva duto al giorno.


Noltri ’ndevévemo a fài dispeti soto al barcon e sighévemo:

 « Fracanapa, Fracanapa », e elo ’l ne rispondeva: « la merda che ve ’ntaca ».


Un giorno passo per de là sensa acorseme, el me ciapa pel cupin, el me tira drento, el me liga sula cariega vissin ala machina de cusì e ’l me dise:

« ciò, bruto fiol d’un can, desso t’ha finio de tóme la vita, te meto una bela siola sula boca (cussi no tu ’i romparà più le bale a nissun).

Me digo: « ma sior Iacu, me no gero 'sta volta, lo zuro! » - el me veva ciapao propio quela volta che no i vevo fato ninte.


Intanto passa Angelo, el me veghe ligao e ‘l taca a sigà:

 « Fracanapa, Fracanapa »,

elo el vien fora per ciapà Angelo e me scampo co' duta la cariega sensa che elo ’l me vega e vago scondeme in curidor de Nando Stefenin.

El torna in botega e nol me cata più.


Me, rivao a desmolàme, 'i porto la cariega fora dela botega e là scuminsio a tòi la vita, e cussi me vevo pagao.


Un giorno gno mare la me manda a portài le scarpe de gno pare ma me no vevo coragio de ’ndà drento, gno mare la domanda al perché, alora me i spiego... gnanche finio me riva un patafòn in viso:

 in quela volta i genituri i gera fati cussi.


M’hè fato coragio e son ’ndao drento:

 « buongiorno sior lacu », « qua tu son e t'ha coragio de vigni drento, fassia tosta! ».

I domando scusa, la vegarà che d'ora in poi no 'i diré più cussi, — bon vegaremo —. 'I lasso le scarpe e vago via.


De quela volta semo diventai amici.

 


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festival della CANZONE GRADESE

Tempo di Festival, se ne parla ancora poco, ma c'è un intenso lavorio che gli ruota attorno.

Prove continue, registrazioni già fatte, rifiniture e un grosso lavoro dell' Organizzazione che opera "sotagera" ma con grande intensità.


Il tutto condito dal necessario silenzio su tutto per riservare ogni sorpresa per la serata conclusiva.


Il Festival Della Canzone Gradese è sempre stata una vetrina per tutti.


E' capitato anche a me di presentarlo in un'unica edizione nel 1973 (trenta chili fa) nella sala del Cinema Cristallo davanti a quasi 2000 persone.


All'epoca la formula prevedeva le canzoni dei "mamuli" e degli "adulti" con la direzione della Fides Intrepida    (l' ho saputo dopo, ma non era molto gradito il mio linguaggio schietto e colorito) e il supporto di Diana Corbatto; con il gruppo orchestrale guidato da Mario Pilotto e il quartetto ritmico dei"Felini".


Mi ricordo dei filmati proposti da Lorenzo Boemo e Giacomo Giorda che commentavano visivamente l'esecuzione delle canzoni.


Una serata epica per me, molto emozionante, mi rammento che avendo un buco nella programmazione della serata cominciai parlare in gradese stretto con i bambini, andando a parare sul "de cu tu son figio" e quindi delle loro nominanse familiari, ho ancora in mente la reazione del pubblico quando un bimbo innocente mi disse -gnò pare ze cagon, gno mare cagadereba-.



Poco mancò che venisse giù il soffitto del Cristallo dalle risate del pubblico, io invece capii in quell' attimo stesso che mi ero giocato la mia carriera di presentatore, almeno con la direzione della canonica.


Per la cronaca in quell'edizione vinsero per la categoria "mamuli" -La Canson de Pirolino" di Tosto-Martino e per gli "adulti" -Quel dì de le nosse_ di Giacomo Zuberti.


A proposito, ho un motivo in più per ricordare quella data, quella sera conobbi mia moglie e dopo quarant'anni siamo ancora insieme.

 


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26 febbraio, 2023

un nuovo parroco

La motivazione di partenza era futile, si trattava di stabilire di che dimensione dovessero essere i festeggiamenti per il ritorno in paese di un fraticello gradese don Benigno Tognon.


Per tradizione il Comune si assumeva l'onere di di patrocinare la festa in onore dei figli dell'isola assurti al sacerdozio e i festeggiamenti furono organizzati secondo regola.


Ma la categoria dei pescatori, probabilmente spinta dagli oppositori politici del Podestà Giovanni Corbatto, ritenne che non si fosse fatto il necessario accusando il Podestà e il Parroco Mons. Rodaro di scarsa considerazione per il frate in quanto figlio di poveri pescatori e organizzò una ulteriore festa che coinvolgeva tutto il paese.


Sotto le pressioni del Podestà i superiori richiamarono il povero Don Benigno in convento prima della festa programmata e si scatenò il finimondo.


Rabbiosa la gente si scagliò contro la caserma della Guardia di Finanza abbattendola quasi, non contenti danneggiarono il Municipio e l'abitazione di don Rodaro.


Da notare il coraggioso atteggiamento del Podestà scappato a Monfalcone a casa dei suoceri e di don Rodaro rifugiatosi a Ronchi.


La stampa locale nel riassumere la vicenda sottolineò il fatto politico che mostrava un Podestà debole e troppo manovrato da Don Rodaro, gli avversari politici chiesero immediate dimissioni della Giunta Comunale che aveva spinto all'esasperazione la gente provocando la sommossa.


Ovviamente chi pagò il conto della sommossa furono pochi poveri pescatori che più degli altri si fecero notare nelle devastazioni degli edifici pubblici.


Ritornata la calma grazie alle guardie austriache intervenute, i nostri vigili, nel trambusto, furono notati in osteria a bersi una birra, le Autorità/coniglio ritornarono in montura a Grado.


...e tutto tornò come prima e come adesso!!! 


--La motivazione di partenza era futile, si trattava di stabilire di che dimensione dovessero essere i festeggiamenti per il ritorno in paese di un fraticello gradese don Benigno Tognon.


Per tradizione il Comune si assumeva l'onere di di patrocinare la festa in onore dei figli dell'isola assurti al sacerdozio e i festeggiamenti furono organizzati secondo regola.


Ma la categoria dei pescatori, probabilmente spinta dagli oppositori politici del Podestà Giovanni Corbatto, ritenne che non si fosse fatto il necessario accusando il Podestà e il Parroco Mons. Rodaro di scarsa considerazione per il frate in quanto figlio di poveri pescatori e organizzò una ulteriore festa che coinvolgeva tutto il paese.


Sotto le pressioni del Podestà i superiori richiamarono il povero Don Benigno in convento prima della festa programmata e si scatenò il finimondo.


Rabbiosa la gente si scagliò contro la caserma della Guardia di Finanza abbattendola quasi, non contenti danneggiarono il Municipio e l'abitazione di don Rodaro.


Da notare il coraggioso atteggiamento del Podestà scappato a Monfalcone a casa dei suoceri e di don Rodaro rifugiatosi a Ronchi.


La stampa locale nel riassumere la vicenda sottolineò il fatto politico che mostrava un Podestà debole e troppo manovrato da Don Rodaro, gli avversari politici chiesero immediate dimissioni della Giunta Comunale che aveva spinto all'esasperazione la gente provocando la sommossa.


Ovviamente chi pagò il conto della sommossa furono pochi poveri pescatori che più degli altri si fecero notare nelle devastazioni degli edifici pubblici.


Ritornata la calma grazie alle guardie austriache intervenute, i nostri vigili, nel trambusto, furono notati in osteria a bersi una birra, le Autorità/coniglio ritornarono in montura a Grado.


...e tutto tornò come prima e come adesso!!! 


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25 febbraio, 2023

il belvedere di grado

  • 1. Quando a Grado si arrivava con il treno e il battello.
    • Alla fine dell’Ottocento le comunicazioni tra Grado e la terraferma si svolgevano ancora per via mare. Alcuni vaporetti facevano infatti la spola tra Belvedere e Grado per trasportare merci e passeggeri.

      Nel 1900, in occasione della visita dell’imperatore Francesco Giuseppe a Gorizia, il podestà di Grado Giacomo Marchesini riuscì ad ottenere da lui un’udienza nella quale chiese l’approvazione al progetto di scavo di un canale navigabile che rendesse più facile e veloce la navigazione. Il problema fu preso a cuore dal sovrano tanto che dopo solo qualche giorno a Monfalcone iniziarono i lavori per la costruzione di una draga per lo scavo ed in breve partirono i lavori sul posto. I turisti arrivavano con il treno a Cervignano e dovevano proseguire con la diligenza fino a Belvedere.

      Solo nel 1910 fu inaugurato il tronco ferroviario Cervignano-Belvedere in modo da rendere possibile il viaggio diretto da Vienna a Belvedere, con evidenti vantaggi per Grado. Con il materiale di scavo del canale fu costruita una strada che risultò poco più di un argine con un ponte di legno sul canale, prima di entrare in Grado. Si pensava addirittura ad un prolungamento della ferrovia fino a Grado, ma le lungaggini burocratiche fecero si che si arrivasse allo scoppio della prima guerra mondiale senza aver dato l’avvio ai lavori.

      Si dovette arrivare al 1934 per dare invece l’avvio alla costruzione della nuova strada e del ponte girevole che congiungessero Belvedere con Grado.

      I lavori si conclusero nel 1936 ed il tronco ferroviario Cervignano-Belvedere rimase attivo fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. A Belvedere rimane ancora in piedi, ma purtroppo in condizioni pessime, la piccola stazione ferroviaria di allora, nonostante qualche anno fa vi fu una richiesta di acquisizione dell'immobile storico a fini turistici credo info point del consorzio con annesso punto di ristoro per i cicloturisti, le ferrovie italiane risposero negativamente ed oggi l'edificio è fatiscente col tetto sfondato .



     


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    LE ANGUILLE

    Fra le varie problematiche da affrontare per l'avvio del progetto dell'Albergo Diffuso in Laguna di Grado c' è, ovviamente, quella ecologico ambientale. Come produrre l'energia elettrica necessaria al funzionamento delle strutture ricettive? Gruppi elettrogeni, naahh-inquinano-; generatori fotovoltaici, forse ma costosi e non di sicura efficacia per le necessità; generatori eolici, ma và dove lo trovi il vento necessario, forse d'inverno con la bora ma non si saranno i fruitori ne tantomeno gli ospitanti; - e allora? - Vemo i bisatiLe anguille elettriche forniranno l'energia elettrica necessaria.


    • Anguilla,anguilla. Qui protette dalla profonda oscurità, prendono vita creature simili minuscole larve. Con una testa piccolissima e occhi poco sviluppati, si chiamano leptocefali,il loro corpo quasi piatto per lo più trasparente. Questo è  il primo stadio dell’ anguilla. Ma il viaggio comincia subito percorrono migliaia di miglia , piò durare fino a tre anni attraverso l’ atlantico fino al mar dei sargassi, le larve crescono nel loro viaggio si trasformano nelle secondo stadio le cieche.

       Lo hanno sperimentato in Giappone illuminando l'albero di Natale con l'energia prodotta dalle anguille di un acquario.

      Volè mete. Col Palù che vemo noltri femo 'na vale de bisati e demo luse duto l'ano.

      Leggevo ieri un intervento che accennava al Boreto de Bisato, uno dei piatti forti della nostra tradizione culinaria, ma una maniera altrettanto tradizionale e, secondo i miei gusti, ancora più gustosa di preparare il Bisato - Anguilla per gli alieni - è il piatto forte dei nostri vicini maranesi:

      Al Bisato in Speo

      Piatto di grande semplicità di ingredienti (lo spiedo di legno aromatico (in passato si usavano i legni dismessi delle reti da pesca intrisi di salmastro) , l’anguilla, le foglie di alloro e il sale grosso) ma preparato con sapienza e lenta cottura al solo calore della brace, è parte integrante della tradizione culinaria maranese che prevedeva la cottura in strada;  nelle piazze e calli di Marano era tutto un profluvio di profumi ed è un peccato che non si possano più annusare queste emozioni . 

      Ma Vediamone gli ingredienti:

      Innanzitutto, le anguille devono essere marine (quelle con la pelle di colore verde) del peso di 700-900 grammi; vanno eviscerate pulendo in maniera accurata la cavità ventrale. 

      Si incide con un coltello la spina dorsale, poi, evitando di tagliare completamente le carni, si infilza l’anguilla allo spiedo in pezzi delle dimensioni di circa 4 dita della mano (moreli), alternandoli con una foglia di alloro.

      Al termine della preparazione il tutto viene cosparso con abbondante sale grosso. 

      Il Bisato in speo viene cotto sospendendolo sopra pochissime braci, girandolo e rigirandolo pazientemente per almeno due ore e comunque fino a quando, per irraggiamento, la pelle risulterà biscottata e le carni completamente sgrassate.     La cottura è ultimata quando le carni si staccheranno con facilità dalla spina centrale.

      La giusta cottura viene valutata secondo le usanze delle diverse famiglie: per alcune il bisato è cotto quando è tenero e morbido come al gelato, mentre altre lo preferiscono più croccante come al biscoto

      La consuetudine a Marano impone che il Bisato in speo sia accompagnato con Vino Rosso.

      Al Bisato no l' ha creanza,    al va messo coldo in te la pansa.




     


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    24 febbraio, 2023

    ENDRIGO


     Mi è stato segnalato questo testo di Sergio Endrigo, una lettera carica d' amore e di ricordi cari su Grado e per certi versi attuabilissima,  e del suo disco, inciso ma non diffuso,  basato sulla poesia di Biagio Marin.

    Purtroppo la cosa non ebbe seguito e sarebbe bello poter avere accesso ai testi e alle canzoni contenute nel disco, se qualcuno sa qualcosa batta un colpo!

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    "Subito dopo la guerra, ho passato un’intera estate a Grado. Avevo quattordici anni. 

    C’ero già stato prima ma ricordavo poche cose. Il viaggio in corriera (non si chiamava ancora pullman), la lunga strada con la laguna attorno e Grado che si avvicinava come un’isola e isola è sempre stata; le farfalle notturne palpitanti sui vetri della terrazza, mia nonna viennese di cui avevo un sacro terrore, mio zio Aldo Smareglia, i miei cugini più grandi. 


    E, prima di addormentarmi, il fascio di luce di un faro intermittente sulle persiane, il motore di un peschereccio e la risacca sulla diga.


    Ora invece avevo tutto da scoprire, la grande libreria di mio zio, la cuginetta del piano di sotto e soprattutto una libertà che credo oggi nessun ragazzo può conoscere.


    Una libertà fatta di aria, acqua, luce, senza rumori, pericoli di traffico ed altro. 

    Ero diventato amico dei pompieri che avevano l’autorimessa a pochi metri dalla casa di mio zio e a volte mi portavano in giro sul loro camion rosso luccicante di ottoni. Ricordo sempre l’odore di nafta e acqua che mi portavo addosso al ritorno.


    La mattina, dopo aver fatto la spesa alla nonna ed esser stato sgridato e rimproverato perché avevo sempre dimenticato o sbagliato qualcosa, scappavo in giardino, scalavo un muretto ed ero sulla diga, sulla spiaggia libera piena di conchiglie e in fondo alla diga andavo a pescare i “guati” con le “naridole” e i “peoci”.


    Ho ricordato tutto questo solo perché Biagio Marin viveva e vive anche oggi nella stessa casa dove abitava mio zio. 

    E’ una grande casa divisa in due da una rete, oggi forse un muretto, che separa i due giardini. 

    Chissà quante volte avrò visto un distinto signore passeggiare tra le zigne, le dalie, i mazzetti multicolori di verbena e le “vanesse” di radicchio e prezzemolo.


    O camminare curvo sull’arenile alla ricerca delle sue amate conchiglie, ali di rondine, capesante, ostriche levigate da sembrare vetro.


    E oggi ritrovare nei suoi versi quella atmosfera, quel colore, quella malinconia delle sere gradesi quando tutto si placa il mare, il cielo e la gente, per me è una gioia tanto grande da farmi male.


    Già il dialetto gradese sta morendo sostituito dalla lingua “ufficiale”, e la laguna con i suoi banchi, le sua valli, i casoni, comincia a conoscere l’inquinamento industriale e forse tra poco la speculazione edilizia.

    facemmo un disco con Biagio Marin, grande poeta di Grado.


    Nell’altra metà della villa abitava Biagio Marin… Dopo aver fatto questo disco, mi accorsi che non riuscivo nemmeno a pagarmi le spese di viaggio, nonostante sullo statuto della Fonit Cetra (allora IRI) c’erano forti incentivi alla cultura…


    Se ci ripenso oggi, mi dispiace molto, ma allora andò così: lasciai perdere. I dischi li ho conservati e oltre alle belle poesie recitate dagli autori, sono interessanti i loro punti di vista su tanti argomenti. 

    Peccato sia finita così…


    Cosa resterà della vecchia Grado se non l’Anzolo del Duomo e i versi di Biagio Marin?

    [Sergio Endrigo]"


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    23 febbraio, 2023

    UN GRANDE CANTANTE DI GRADO- LUCIANO FACCHINETTI

    Ho ricevuto e posto questa biografia di un personaggio caro a tutti noi graisani, un uomo semplice, grande musicista e di una simpatia a tutta pelle, Luciano Siego.


    1. Luciano Facchinetti Siego, o Ciano per gli amici, é un vispo signore verso i sessant’ anni ancora arzillo, con un piglio giovanile ed a tratti fanciullesco; si vede spesso girare in bicicletta senza fretta o, senza mollarla, con un piede a terra per reggersi e chiaccherare a lungo con gli amici, o portando a spasso il nipotino sulla stanga. Non molto alto, in forma, capigliatura nera sempre piú brizzolata, lo riconosci per i baffoni, neri come gli occhi vivaci, naso grosso. Se poi hai dei dubbi, ti puoi avvicinare e se ascolti discorsi di musica o di chitarra sei sicuro di averlo trovato. Quando é a spasso ha una grande placiditá, un antico ritmo lento e se ti fermi, non si accontenta di un semplice saluto, se tu hai fretta e lo chiami e gli sventoli solamente la mano passando avanti, vedi nella sua espressione un rammarico. Con l’eta’ e’ diventato un po’ sordo da un’orecchio e quindi e’ meglio parlargli dal lato giusto.


      Fin da quando da piccolo ho messo le labbra sul clarinetto in mi bemolle, detto anche quartino e cominciato a frequentare la banda civica, ho sentito il suo nome che ricorreva spesso nei discorsi fra i suonatori anziani, i grandi, in particolare fra quelli che avevano la fortuna di suonare nell’orchestra del Festival della Canzone Gradese; ne parlavano con rispetto musicale e con simpatia, bastava che qualcuno ne accennasse e le facce diventavano allegre, la risata pronta a partire.

      Avevo partecipato piccolissimo a questa manifestazione nella sezione dei Mamuli, nell’ ex-cinema dov’e’ l’attuale supermercato Europa, con la canzone Canditi la cui musica era stata scritta da Valerio Pastoricchio. Probabilmente Ciano aveva suonato anche quella volta, come sempre, ma avendo solo cinque anni non lo avevo certo notato.


      Da bambino abitava in Borgo de Fora, vicino a Piazza Marin, che allora si chiamava Piazza Vittoria; la sua era una famiglia di modeste condizioni, ma di sicuro le risate non mancavano.

      Il padre, come tanti gradesi passava buona parte della serata in osteria con gli amici ed il piccolo Luciano spesso veniva mandato in missione dalla madre per recuperarlo, un leit-motiv gradese. Un giorno non l’aveva trovato da nessuna parte ed era alquanto preoccupato per la reazione della madre che, man mano passava il tempo e si faceva tardi fumava sempre di piu’ per la rabbia. Alla fine un bussare incerto risuonó dal portone, lei si armó della scopa, aprí di colpo la porta e prese a tirare colpi sulla testa del marito, che pero’ era il povero Monsignore Sebastiano Tognon, passato per la benedizione delle case.


      Con loro viveva anche la nonna, mal messa per gli acciacchi dell’etá, specialmente un mal di schiena che la faceva brontolare di continuo. Un po’ cresciuto Luciano insistette perche’ si facesse vedere da un dottore, ma lei, seraficamente, con la fede che le brillava negli occhi gli rispose che non serviva, gia’ da tempo aveva messo sulla parte dolorante un santino di San Antonio e piu’ di lui chi poteva fare di piú?

      Incuriosito, nottetempo Luciano si avvicino’ silenziosamente al letto della nonna e delicatamente riusci’ ad infilarle una mano sotto il pigiama senza svegliarla ed a recuperare il prodigioso santino. La nonna pero’ si sveglió subito dopo perche’ il nipote non seppe trattenere una risata vedendo che il prodigioso medicamento era in realta’ una figurina del calciatore Sivori!


      Fin da bambino ed in tutta la sua vita c’erano due cose che lo appassionavano: la chitarra ed gli uccellini.

      Passava ore con Mario, il nostro vicino di casa, che aveva riempito il piccolo cortile di voliere, e conosceva tutte le tecniche per catturarli, specie nella zona della Sacca: fischietti, reti, alberi finti e vistiae.


      Con le grandi bande di ragazzini che si formavano a quei tempi, andava a nuotare dietro l’isola della Schiusa, e passando il canale raggiungevano il prospicente Dosso de le rane. Lí, con la protezione della vegetazione lacustre, partiva un’insolita gara senza premi dove il vincitore era chi produceva gli stronzi piu’ grandi; dopo la prova si riunivano e le esecuzioni venivano passate in rassegna. Sicuro era un susseguirsi di risate ma un giorno la commissione restó ammutolita di fronte ad un’opera monumentale, sulla quale era stato anche apposto un cartellino con su scritto: “Sensa sforso“; l’autore resto’ sconosciuto ma credo che per lo stile non si possa dubitare che fosse Ciano.


      Dopo gli anni della grande fame, quando in giro si vedevano pochi colombi e passerotti, subito dopo la seconda guerra mondiale arrivarono le truppe di liberazione inglesi ed americane ed in paese si comincio’ a vedere la cioccolata che arrivava dalle loro famose razioni K. I nostri mamuli giravano in gruppetti divertendosi per la novitá ed anche cercando l’occasione di mangiare qualcosa di prelibato; un giorno, gli Americani avevano lasciato su di un davanzale una grande forma di pane piatta , una galletta gigantesca; Ciano ed amici la notarono immediatamente, la tirarono ancora piu’ in fuori e, impostate le fameliche bocche sulla sua larghezza, si misero a mangiarla. “Comó machinete” commentava, e certo dall’interno i soldati si saranno sorpresi vedendo la galletta che usciva e scompariva !


      Piu’ tardi, come a tutti, gli tocco’ il servizio militare e della naja aveva un bel ricordo; l’aveva passata assieme ad altri ragazzi gradesi, d’accordo c’era la disciplina ma finalmente non mancava da mangiare. I nostri arrivavano dalla poverta’ e si ingozzavano di pastasciutta, partiti smilzi ritornarono a casa con una bella pancia rotonda.

      E c’e’ da dire che in varie sue canzoni la fame o il suo altro lato, la poverta’, riappare come in Magna, magna figio mio dove recita “Se tu no magnará, solo rece de tu se vegará” o in Povero mein capel con “Ma dó sardele in tola le vol pe’ no murí “.

      Una notte lo misero di guardia con altri due alla camera mortuaria per vegliare un commilitone, dopo qualche ora cominció ad annoiarsi e, approfittando dell’assenza di un compagno d’armi che era andato al gabinetto, con l’altro amico tirarono su il morto, si nasconderono dietro e reggendolo quando tornó gli avanzarono incontro; quello si spaventó e terrorizzato dal morto che camminava scappó a gambe levate. Felici per la riuscita della burla, rimisero il defunto al suo posto e richiamarono l’altro che stava correndo giu’ per le scale, si sganasciarono dalle risa ed alla fine si calmarono e si apprestarono ad attendere il cambio di guardia.

      Terminato di ridere la quiete ritornó ma, forse per il movimento causato dalla camminata fuori programma, il gas nella pancia del pover’uomo si era mosso e così cominciarono a sentire impercettibili rumori dalla sagoma distesa. Pensarono subito che fosse l’amico per vendicarsi dello scherzo di prima, gli dissero di star fermo e non si preoccuparono, ma improvvisamente lo videro tornare un’altra volta dal bagno ed allora, se non era stato lui, era il morto offeso per il poco riguardo dimostratogli. Questa volta scapparono spaventati tutti e tre.


      Raccontava che un giorno fu chiamato ad un’audizione a Milano per l’orchestra giovanile della RAI. Gia’ all’arrivo si meraviglio’ perche’ ad attenderlo alla stazione dei treni c’era un tipo con un cartello con su il suo nome, lo stesso era il taxista con il quale bisticció perché mentre lo conduceva a destinazione rifiutava di farlo stare seduto davanti. Poi all’albergo a colazione restó incantato davanti a tutto quel ben di Dio ben disposto su lunghi tavoli; con l’antica previdenza isolana pensando ai pasti i successivi, che non si sa mai, fece incetta di pagnotte, se le mise nelle tasche e di soppiatto, a piú riprese riforní l’armadio in camera. Poi gli spiegarono che anche pranzo e cena erano gia’ pagati ma comunque, anche se l’immediata sopravvivenza era risolta, continuó la provvigione pensando alla futura fame lagunare.


      Peró la musica, al di lá delle suonate a matrimoni, lezioni di chitarra, sagre, concertini estivi non basta per tirare avanti una famiglia e perció alternava i lavori tipici stagionali (sabbiature, bagnino) con il muratore.

      Dava lezioni di chitarra ai bambini, e la prima lezione era particolare perché allo studente chiedeva subito se sapeva nuotare. Se la risposta era affermativa gli chiedeva di darne una dimostrazione. “Comó, nuá, indola ? “ replicavano stralunati “Ma quá, per tera, indola se no !” replicava lui serio. Be’ quelli che si distendevano e cominciavano a muovere goffamente braccia e gambe sul pavimento venivano subito bocciati, perche’ diceva Ciano: “No volevo miga insegnai ai muni, sarave stao tempo ghitao via! “.

      Nella vecchia casa il piccolo bagno era separato dal soggiorno da una semplice tenda e stava insegnando ad un amico la tecnica del mandolino in posizione eretta appoggiando un piede sulla parete, dopo la dimostrazione toccó all’amico ripetere la lezione e, non conoscendo la geografia della casa, appoggió il piede sulla tenda perdendo l’equilibrio e finendo direttamente nella turca!


      D’estate per un periodo lavoró all’Hotel Astoria, il piú lussuoso del paese, come bagnino, all’ultimo piano. Fra i clienti c’era il dottor Scarpa, anno dopo anno, nonostante le sue cortesie non li allungava mezza mancia “tacagno comó la peste” e perció preparó una piccola vendetta. Il tale faceva uso dei bagni curativi in acqua di mare, l’hotel era attrezzato con vasche apposite, cosicché un giorno gli si mise di dietro e lo incitó a fare anche dei gargarismi, portentosi per la gola e, mentre lo convinceva gli pisciava con circospezione da dietro nella vasca.

      Nell’ultimo piano dell’hotel c’era anche un solarium, maschile e femminile rigorosamente divisi, l’ultimo guardato a vista da due donne gradesi, giusto per farle imbestialire, con il compagno Gianni Marchesan Cavalin si metteva sopra i vestiti da donna un’accappatoio ed un asciugamano sulla testa, entrare con la testa un po’ china per nascondere le rudi fattezze, ma facendosi poi sorprendere, magari facendo cadere l’asciugamano o alzando la testa un attimo e guardando di sbieco, godere delle urla delle sorveglianti, Quella dei travestimenti é sempre stata una sua passione, ancora oggi puó capitare di vederlo mettersi un tovagliolo in testa per diventare una donna od uno sceicco arabo.


      Con Cavalin alla chitarra ed Arturo Marin al violino componeva il Trio Saltapasti, che ha suonato per anni ed anni in paese, dall’hotel Savoy al Gardenia e senza dimenticare di allietare a Natale ed in tante altre occasioni gli anziani della casa di riposo. Oltre al repertorio classico da Besame mucho a Mámola, lui e Gianni cantavano le loro canzoni gradesi come Cinzia, Tango de Palú, Povero Mein Capel, tutte ironiche, pungenti ed anche surreali, nella tradizione di Piero Marchesan Canaro; rime come: “Se vemo messo del pesse bon dopo domila ani de sabion” o “E i siuri xé in Pancera che i beve ‘l Punt e Mes” e “Magna, magna figio mio che vego sgangulio” sono entrate nella memoria collettiva gradese. A volte nei testi é nascosto un messaggio occulto, é il caso di La Gatafera, arrivata seconda al Festival della Canzone Gradese nel 1971 nella categoria bambini. Questo terribile gattone con “i oci comó al fogo – a Gravo nato ma ‘l vive in Taroto – che quando che ‘l riva in citá, duti quanti ne fá spasemá” si riferiva a Lucio Grigolon, sindaco di Grado e uomo di potere degli anni cinquanta, sessanta.


      Come tanti compaesani nella bella stagione lavorava nell’azienda della spiaggia, spesso come addetto alle sabbiature: assisteva i turisti e gli copriva con la sabbia, fra di loro c’era un nano e, dopo averlo sepolto, a sua insaputa, ad un metro dai piedi infilava nella sabbia le sue ciabatte, cosicche’ ad una prima occhiata diventava di un’altezza normale. Fiero della sua opera lo chiamava: “Al nano piú grando del mondo”.


      Per un musicista lo strumento e’ un’estensione della personalitá e non si prende in mano, lo si abbraccia, con tenerezza, come si farebbe con un bambino, per Ciano e la sua Fender era cosi’. Una volta commentando di un altro chitarrista gradese disse: “Al sona stravacao e al tien la chitara comó una fersora !”. Raccontava, ma ho sempre creduto che fosse una leggenda, che quando era andato a comprarla si era avvicinato un signore smilzo e gli aveva chiesto il permesso di provarla per poi dirgli che sarebbe stato un ottimo acquisto. Sulle prime non lo aveva conosciuto ma poi, sentendolo pizzicare le corde non aveva avuto dubbi, era Franco Cerri, forse il piú grande suonatore di chitarra jazz italiano.


      Anche se non era il primo amore, si dedicava con piacere alla professione di muratore, certo sempre con l’animo allegro diffondendo battute a tutto spiano, come quando, per arrotondare lo stipendio, lavoró per restaurare la casa di mio fratello Andrea a San Nicoló di Ruda. I figli di mio fratello non vedevano l’ora di ritornare a casa da scuola per andarlo a vedere: soffiando di lato della bocca per far vibrare il baffo, ridere della sua mimica facciale come ad esempio quando alternava una faccia serissima con una poi di colpo allegra.


      E comunque la musica era sempre presente, pervasiva, diceva che le ispirazioni gli venivano in qualsiasi momento e, stranamente, specialmente in gabinetto, quando proprio per catturare le note non c’era niente a disposizione; invece magari mentre tirava su intonaci e gli capitava un’idea, la scriveva subito su qualsiasi cosa a portata di mano: carta dei sacchi di cemento, mattoni.

      Per la comune passione e per la simpatia diventó amico anche dei miei fratelli, ricordo una bella lunga serata a casa quando improvviso’ in versi su ogni componente della famiglia, ebbe gioco facile per rimare con Luciano ed Andrea, volevo proprio vedere come se la sarebbe cavata con Mario ma, dopo un giro strampalato lo beccó con un calendario. Questa delle rime in musica é un’arte antica che parté dai cantastorie ed oggi, con la musica a facile disposizione non ci sono piú gli improvvisatori: a Ciano era sempre piaciuto questo esercizio ed altri mi hanno raccontato che quando abitava in Gravo vecia, prima di andare a vivere in un condominio vicino al porticciolo settentrionale, andava avanti per ore, proponendo macchiette per tutti gli abitanti di Via Gradenigo, uno dietro l’altro, casa per casa, secondo l’ordine del numero civico.


      Questo é Ciano Siego, con i suoi difetti e le sue qualitá ma indubbiamente un vero graisan, qualche piccole storia, e chissá quante altre, magari non significative ai piú, per me invece parte della mia vita e che porteró sempre con me. Lo scritto é memoria e spero servirá ad altri per ricordare.


      Luciano Cicogna, Islanda Marzo 2008Ho ricevuto e posto questa biografia di un personaggio caro a tutti noi graisani, un uomo semplice, grande musicista e di una simpatia a tutta pelle, Luciano Siego.


      Luciano Facchinetti Siego, o Ciano per gli amici, é un vispo signore verso i sessant’ anni ancora arzillo, con un piglio giovanile ed a tratti fanciullesco; si vede spesso girare in bicicletta senza fretta o, senza mollarla, con un piede a terra per reggersi e chiaccherare a lungo con gli amici, o portando a spasso il nipotino sulla stanga. Non molto alto, in forma, capigliatura nera sempre piú brizzolata, lo riconosci per i baffoni, neri come gli occhi vivaci, naso grosso. Se poi hai dei dubbi, ti puoi avvicinare e se ascolti discorsi di musica o di chitarra sei sicuro di averlo trovato. Quando é a spasso ha una grande placiditá, un antico ritmo lento e se ti fermi, non si accontenta di un semplice saluto, se tu hai fretta e lo chiami e gli sventoli solamente la mano passando avanti, vedi nella sua espressione un rammarico. Con l’eta’ e’ diventato un po’ sordo da un’orecchio e quindi e’ meglio parlargli dal lato giusto.


      Fin da quando da piccolo ho messo le labbra sul clarinetto in mi bemolle, detto anche quartino e cominciato a frequentare la banda civica, ho sentito il suo nome che ricorreva spesso nei discorsi fra i suonatori anziani, i grandi, in particolare fra quelli che avevano la fortuna di suonare nell’orchestra del Festival della Canzone Gradese; ne parlavano con rispetto musicale e con simpatia, bastava che qualcuno ne accennasse e le facce diventavano allegre, la risata pronta a partire.

      Avevo partecipato piccolissimo a questa manifestazione nella sezione dei Mamuli, nell’ ex-cinema dov’e’ l’attuale supermercato Europa, con la canzone Canditi la cui musica era stata scritta da Valerio Pastoricchio. Probabilmente Ciano aveva suonato anche quella volta, come sempre, ma avendo solo cinque anni non lo avevo certo notato.


      Da bambino abitava in Borgo de Fora, vicino a Piazza Marin, che allora si chiamava Piazza Vittoria; la sua era una famiglia di modeste condizioni, ma di sicuro le risate non mancavano.

      Il padre, come tanti gradesi passava buona parte della serata in osteria con gli amici ed il piccolo Luciano spesso veniva mandato in missione dalla madre per recuperarlo, un leit-motiv gradese. Un giorno non l’aveva trovato da nessuna parte ed era alquanto preoccupato per la reazione della madre che, man mano passava il tempo e si faceva tardi fumava sempre di piu’ per la rabbia. Alla fine un bussare incerto risuonó dal portone, lei si armó della scopa, aprí di colpo la porta e prese a tirare colpi sulla testa del marito, che pero’ era il povero Monsignore Sebastiano Tognon, passato per la benedizione delle case.


      Con loro viveva anche la nonna, mal messa per gli acciacchi dell’etá, specialmente un mal di schiena che la faceva brontolare di continuo. Un po’ cresciuto Luciano insistette perche’ si facesse vedere da un dottore, ma lei, seraficamente, con la fede che le brillava negli occhi gli rispose che non serviva, gia’ da tempo aveva messo sulla parte dolorante un santino di San Antonio e piu’ di lui chi poteva fare di piú?

      Incuriosito, nottetempo Luciano si avvicino’ silenziosamente al letto della nonna e delicatamente riusci’ ad infilarle una mano sotto il pigiama senza svegliarla ed a recuperare il prodigioso santino. La nonna pero’ si sveglió subito dopo perche’ il nipote non seppe trattenere una risata vedendo che il prodigioso medicamento era in realta’ una figurina del calciatore Sivori!


      Fin da bambino ed in tutta la sua vita c’erano due cose che lo appassionavano: la chitarra ed gli uccellini.

      Passava ore con Mario, il nostro vicino di casa, che aveva riempito il piccolo cortile di voliere, e conosceva tutte le tecniche per catturarli, specie nella zona della Sacca: fischietti, reti, alberi finti e vistiae.


      Con le grandi bande di ragazzini che si formavano a quei tempi, andava a nuotare dietro l’isola della Schiusa, e passando il canale raggiungevano il prospicente Dosso de le rane. Lí, con la protezione della vegetazione lacustre, partiva un’insolita gara senza premi dove il vincitore era chi produceva gli stronzi piu’ grandi; dopo la prova si riunivano e le esecuzioni venivano passate in rassegna. Sicuro era un susseguirsi di risate ma un giorno la commissione restó ammutolita di fronte ad un’opera monumentale, sulla quale era stato anche apposto un cartellino con su scritto: “Sensa sforso“; l’autore resto’ sconosciuto ma credo che per lo stile non si possa dubitare che fosse Ciano.


      Dopo gli anni della grande fame, quando in giro si vedevano pochi colombi e passerotti, subito dopo la seconda guerra mondiale arrivarono le truppe di liberazione inglesi ed americane ed in paese si comincio’ a vedere la cioccolata che arrivava dalle loro famose razioni K. I nostri mamuli giravano in gruppetti divertendosi per la novitá ed anche cercando l’occasione di mangiare qualcosa di prelibato; un giorno, gli Americani avevano lasciato su di un davanzale una grande forma di pane piatta , una galletta gigantesca; Ciano ed amici la notarono immediatamente, la tirarono ancora piu’ in fuori e, impostate le fameliche bocche sulla sua larghezza, si misero a mangiarla. “Comó machinete” commentava, e certo dall’interno i soldati si saranno sorpresi vedendo la galletta che usciva e scompariva !


      Piu’ tardi, come a tutti, gli tocco’ il servizio militare e della naja aveva un bel ricordo; l’aveva passata assieme ad altri ragazzi gradesi, d’accordo c’era la disciplina ma finalmente non mancava da mangiare. I nostri arrivavano dalla poverta’ e si ingozzavano di pastasciutta, partiti smilzi ritornarono a casa con una bella pancia rotonda.

      E c’e’ da dire che in varie sue canzoni la fame o il suo altro lato, la poverta’, riappare come in Magna, magna figio mio dove recita “Se tu no magnará, solo rece de tu se vegará” o in Povero mein capel con “Ma dó sardele in tola le vol pe’ no murí “.

      Una notte lo misero di guardia con altri due alla camera mortuaria per vegliare un commilitone, dopo qualche ora cominció ad annoiarsi e, approfittando dell’assenza di un compagno d’armi che era andato al gabinetto, con l’altro amico tirarono su il morto, si nasconderono dietro e reggendolo quando tornó gli avanzarono incontro; quello si spaventó e terrorizzato dal morto che camminava scappó a gambe levate. Felici per la riuscita della burla, rimisero il defunto al suo posto e richiamarono l’altro che stava correndo giu’ per le scale, si sganasciarono dalle risa ed alla fine si calmarono e si apprestarono ad attendere il cambio di guardia.

      Terminato di ridere la quiete ritornó ma, forse per il movimento causato dalla camminata fuori programma, il gas nella pancia del pover’uomo si era mosso e così cominciarono a sentire impercettibili rumori dalla sagoma distesa. Pensarono subito che fosse l’amico per vendicarsi dello scherzo di prima, gli dissero di star fermo e non si preoccuparono, ma improvvisamente lo videro tornare un’altra volta dal bagno ed allora, se non era stato lui, era il morto offeso per il poco riguardo dimostratogli. Questa volta scapparono spaventati tutti e tre.


      Raccontava che un giorno fu chiamato ad un’audizione a Milano per l’orchestra giovanile della RAI. Gia’ all’arrivo si meraviglio’ perche’ ad attenderlo alla stazione dei treni c’era un tipo con un cartello con su il suo nome, lo stesso era il taxista con il quale bisticció perché mentre lo conduceva a destinazione rifiutava di farlo stare seduto davanti. Poi all’albergo a colazione restó incantato davanti a tutto quel ben di Dio ben disposto su lunghi tavoli; con l’antica previdenza isolana pensando ai pasti i successivi, che non si sa mai, fece incetta di pagnotte, se le mise nelle tasche e di soppiatto, a piú riprese riforní l’armadio in camera. Poi gli spiegarono che anche pranzo e cena erano gia’ pagati ma comunque, anche se l’immediata sopravvivenza era risolta, continuó la provvigione pensando alla futura fame lagunare.


      Peró la musica, al di lá delle suonate a matrimoni, lezioni di chitarra, sagre, concertini estivi non basta per tirare avanti una famiglia e perció alternava i lavori tipici stagionali (sabbiature, bagnino) con il muratore.

      Dava lezioni di chitarra ai bambini, e la prima lezione era particolare perché allo studente chiedeva subito se sapeva nuotare. Se la risposta era affermativa gli chiedeva di darne una dimostrazione. “Comó, nuá, indolà ? “ replicavano stralunati “Ma quá, per tera, indola se no !” replicava lui serio. Be’ quelli che si distendevano e cominciavano a muovere goffamente braccia e gambe sul pavimento venivano subito bocciati, perche’ diceva Ciano: “No volevo miga insegnai ai muni, sarave stao tempo ghitao via! “.

      Nella vecchia casa il piccolo bagno era separato dal soggiorno da una semplice tenda e stava insegnando ad un amico la tecnica del mandolino in posizione eretta appoggiando un piede sulla parete, dopo la dimostrazione toccó all’amico ripetere la lezione e, non conoscendo la geografia della casa, appoggió il piede sulla tenda perdendo l’equilibrio e finendo direttamente nella turca!


      D’estate per un periodo lavoró all’Hotel Astoria, il piú lussuoso del paese, come bagnino, all’ultimo piano. Fra i clienti c’era il dottor Scarpa, anno dopo anno, nonostante le sue cortesie non li allungava mezza mancia “tacagno comó la peste” e perció preparó una piccola vendetta. Il tale faceva uso dei bagni curativi in acqua di mare, l’hotel era attrezzato con vasche apposite, cosicché un giorno gli si mise di dietro e lo incitó a fare anche dei gargarismi, portentosi per la gola e, mentre lo convinceva gli pisciava con circospezione da dietro nella vasca.

      Nell’ultimo piano dell’hotel c’era anche un solarium, maschile e femminile rigorosamente divisi, l’ultimo guardato a vista da due donne gradesi, giusto per farle imbestialire, con il compagno Gianni Marchesan Cavalin si metteva sopra i vestiti da donna un’accappatoio ed un asciugamano sulla testa, entrare con la testa un po’ china per nascondere le rudi fattezze, ma facendosi poi sorprendere, magari facendo cadere l’asciugamano o alzando la testa un attimo e guardando di sbieco, godere delle urla delle sorveglianti, Quella dei travestimenti é sempre stata una sua passione, ancora oggi puó capitare di vederlo mettersi un tovagliolo in testa per diventare una donna od uno sceicco arabo.


      Con Cavalin alla chitarra ed Arturo Marin al violino componeva il Trio Saltapasti, che ha suonato per anni ed anni in paese, dall’hotel Savoy al Gardenia e senza dimenticare di allietare a Natale ed in tante altre occasioni gli anziani della casa di riposo. Oltre al repertorio classico da Besame mucho a Mámola, lui e Gianni cantavano le loro canzoni gradesi come Cinzia, Tango de Palú, Povero Mein Capel, tutte ironiche, pungenti ed anche surreali, nella tradizione di Piero Marchesan Canaro; rime come: “Se vemo messo del pesse bon dopo domila ani de sabion” o “E i siuri xé in Pancera che i beve ‘l Punt e Mes” e “Magna, magna figio mio che vego sgangulio” sono entrate nella memoria collettiva gradese. A volte nei testi é nascosto un messaggio occulto, é il caso di La Gatafera, arrivata seconda al Festival della Canzone Gradese nel 1971 nella categoria bambini. Questo terribile gattone con “i oci comó al fogo – a Gravo nato ma ‘l vive in Taroto – che quando che ‘l riva in citá, duti quanti ne fá spasemá” si riferiva a Lucio Grigolon, sindaco di Grado e uomo di potere degli anni cinquanta, sessanta.


      Come tanti compaesani nella bella stagione lavorava nell’azienda della spiaggia, spesso come addetto alle sabbiature: assisteva i turisti e gli copriva con la sabbia, fra di loro c’era un nano e, dopo averlo sepolto, a sua insaputa, ad un metro dai piedi infilava nella sabbia le sue ciabatte, cosicche’ ad una prima occhiata diventava di un’altezza normale. Fiero della sua opera lo chiamava: “Al nano piú grando del mondo”.


      Per un musicista lo strumento e’ un’estensione della personalitá e non si prende in mano, lo si abbraccia, con tenerezza, come si farebbe con un bambino, per Ciano e la sua Fender era cosi’. Una volta commentando di un altro chitarrista gradese disse: “Al sona stravacao e al tien la chitara comó una fersora !”. Raccontava, ma ho sempre creduto che fosse una leggenda, che quando era andato a comprarla si era avvicinato un signore smilzo e gli aveva chiesto il permesso di provarla per poi dirgli che sarebbe stato un ottimo acquisto. Sulle prime non lo aveva conosciuto ma poi, sentendolo pizzicare le corde non aveva avuto dubbi, era Franco Cerri, forse il piú grande suonatore di chitarra jazz italiano.


      Anche se non era il primo amore, si dedicava con piacere alla professione di muratore, certo sempre con l’animo allegro diffondendo battute a tutto spiano, come quando, per arrotondare lo stipendio, lavoró per restaurare la casa di mio fratello Andrea a San Nicoló di Ruda. I figli di mio fratello non vedevano l’ora di ritornare a casa da scuola per andarlo a vedere: soffiando di lato della bocca per far vibrare il baffo, ridere della sua mimica facciale come ad esempio quando alternava una faccia serissima con una poi di colpo allegra.


      E comunque la musica era sempre presente, pervasiva, diceva che le ispirazioni gli venivano in qualsiasi momento e, stranamente, specialmente in gabinetto, quando proprio per catturare le note non c’era niente a disposizione; invece magari mentre tirava su intonaci e gli capitava un’idea, la scriveva subito su qualsiasi cosa a portata di mano: carta dei sacchi di cemento, mattoni.

      Per la comune passione e per la simpatia diventó amico anche dei miei fratelli, ricordo una bella lunga serata a casa quando improvviso’ in versi su ogni componente della famiglia, ebbe gioco facile per rimare con Luciano ed Andrea, volevo proprio vedere come se la sarebbe cavata con Mario ma, dopo un giro strampalato lo beccó con un calendario. Questa delle rime in musica é un’arte antica che parté dai cantastorie ed oggi, con la musica a facile disposizione non ci sono piú gli improvvisatori: a Ciano era sempre piaciuto questo esercizio ed altri mi hanno raccontato che quando abitava in Gravo vecia, prima di andare a vivere in un condominio vicino al porticciolo settentrionale, andava avanti per ore, proponendo macchiette per tutti gli abitanti di Via Gradenigo, uno dietro l’altro, casa per casa, secondo l’ordine del numero civico.


      Questo é Ciano Siego, con i suoi difetti e le sue qualitá ma indubbiamente un vero graisan, qualche piccole storia, e chissá quante altre, magari non significative ai piú, per me invece parte della mia vita e che porteró sempre con me. Lo scritto é memoria e spero servirá ad altri per ricordare.


      Luciano Cicogna, Islanda Marzo 2008


     


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