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22 aprile, 2014

Biagio Marin per Mons. Silvano Fain

In occasione  dell'arrivo nel 1957 a Grado di Mons. Silvano Fain,  Biagio Marin ha dedicato a quella giornata una lettera dove con parole auliche fa un quadro di quello che siamo noi gradesi, la nostra Isola, i sentimenti tumultuosi e altalenanti, dove alla fine lo mette in guardia.

Era l'ottava di Pasqua, una Pasqua alta, aprilina, quando le campane dell'isola, dopo i mattutini, si misero a chiamare a gran voce. E tutto il paese già sapeva che cosa significasse quel richiamo e grandi e piccoli s'erano levati in fretta, per andare incontro al nuovo parroco, che non conoscevano, ma di cui avevano già sentito dire meraviglie, e che tutti attendevano con fiduciosa speranza. Di che? Non avrebbero saputo dire: ma certo ognuno attendeva quasi un dono personale, un qualche bene per sé e perché i suoi più cari…
Già erano pronte le barche dei pescatori, tutte pavesate a festa, ornate di fiori, che sarebbero andate a prelevare il Pastore, ai limiti della terraferma. La più bella, la più potente, l'avevano preparata per lui con un trono sulla tolda coperta da grandi tappeti. E ovunque fiori, a mazzi, a corone, a festoni; e tante bandiere garrule e festose, da far impazzire i bimbi di gioia e far sorridere di contentezza anche i vecchi.
Le adiacenze del porto erano nere di gente. E puro era il cielo primaverile, e giovane e ridente il nuovo sole. Perfino nelle pietre dei moli c'era un tepore che commoveva, e l'acqua del porto aveva un intimo tremore di gioia.
Ad un certo momento cominciarono a tonare i petardi. Era in arrivo. La gente ondeggiava sulle rive come un campo di grano sotto il maestrale. La processione s'affacciò sul canale che veniva dalla terraferma. Tutti gli occhi erano là in fondo. Ed ecco il corteo imboccare il canale del porto. Anche io ero tra la mia gente, col cuore in tumulto. Ecco sfilare nel sole alto e nella romba solenne dei motori, la barca che portava assiso in trono, il giovane Arciprete. Era tutto vestito di viola; aveva, appesa a una collana d'oro, la croce pettorale come un vescovo, e un'aria assorta e commossa, quasi di vittima sacra.
I miei occhi si velarono, e quasi inconsapevolmente dissi: "Benedictus qui venit in nomine Domini". Non era facile venire tra noi, nel nome del Signore. Quella massa nera di gente che sotto il sole osannava, era come il suo mare, che cambia facilmente di umore. Pareva che volessero buttarli ai piedi le loro anime. Ma incerta è la nostra capacità di devozione; ma dubbia la nostra capacità di farci cavi per accogliere la Parola e incarnarla nella quotidianità. Guardavo al nobile viso, pallido di commozione dell'arciprete. Volentieri lo avrei baciato. E all'uomo avrei detto: "Grazie fratello per la tua volontà di sacrificio. Avrai bisogno di tutta la tua fede, di tutta la tua umiltà, di tutta tua capacità d'amore, di tutta la tua giovane forza, per superare la solitudine e l'amarezza di un prossimo domani. Dio ti assista. Te lo auguro con tutto il cuore; e di ogni tua opera, di ogni bene che farai, fin d'ora ti ringrazio. Non ti lasciare ingannare dal nostro entusiasmo; dalla nostra capacità di volgere in canto chiaro tutta la vita.

Siamo marinai e tu della terra ferma; ogni vento ci muove e ci porta via. Non sappiamo la legge che obbliga alla costanza, alla fermezza. E sappiamo mordere la mano che ci benefica. 
Dio t’aiuti, prete! E la tua lotta contro la nostra morte sia vittoriosa".

Biagio Marin
 


Aggiungere qualcosa non è possibile, ci ha descritti per quello che siamo e, bontà sua con grande consapevolezza, non si è tolto nemmeno lui.
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1 commento:

Ruggero Marocco ha detto...

Lo stesso poeta , poco tempo dopo, così descriveva il Nostro uomo:
La mitria de seda no'basta, co'l'anema freda; ne'manto de viola
co'l'anema sola.'Sti gran paraminti
che pesa e separa dà solo turminti,
fa l'anema amara. L'altar xe solene fra luse e l'incenso; ma drento le vene te score el silenzio.
E anche questo è un gradese.